venerdì 29 giugno 2012

33. Un indimenticabile Capodanno (prima parte)

E alla fine venne San Silvestro con una festa in montagna tra amici.
Amici a cui piaceva sia la vecchia sia la nuova versione di me. Amici che mi erano stati sempre vicini nel momento del bisogno. Amici che non si offendevano quando dicevo loro di voler ripartire ma, anzi, programmavano gite per venirmi a trovare e fare un poco di sana bisboccia crucca assieme.

Tanti mesi di lontananza però avevano finito col farmi dimenticare, o sottovalutare, qualche insignificante particolare riguardo al simpatico gruppo con cui solitamente mi accompagnavo.
Avevo dimenticato, per esempio, che alcuni di loro fossero degli emeriti deficienti con cui uscivo solo in quanto amici di amici di amici di amici.
Avevo sottovalutato il litigio tra LaBionda e LaMora. Rottura, tanto incomprensibile quanto inconciliabile, che aveva trasformato la nostra comitiva in una sabauda versione della Guerra Fredda. Con tanto di muro di Berlino a forma di gianduiotto.
Avevo persino trascurato che IlBuono, con cui scelsi di fare il viaggio in macchina dalla pianura fino alla vetta, avesse come indiscusso mito musicale Michele Zarrillo. E, per questo, mi toccarono due ore filate di "Una rosa blu" senza soluzione di continuità. Un'esperienza che mi rese più forte ma anche un filino schizofrenica.

Ma tutto ciò non aveva importanza. A Capodanno le cose vecchie e brutte si buttano dalla finestra e si tengono solo quelle belle che ci accompagneranno per tutto l'anno nuovo.
Tutto si supera.
Tutto o quasi.

Ognuno di noi aveva generosamente contribuito a costituire un importante tesoretto da spendere in salatini, bevande varie e soprattutto alcolici. Tanti alcolici.
Arrivati tra i monti, mentre io ed altre giovani nonne Papere esibivamo orgogliose i dolci preparati per l'occasione, mi accorsi che tutto quello zuccheroso ben di Dio avremmo dovuto mandarlo giù con l'acqua del rubinetto. Sul tavolo, infatti, facevano bella mostra di sé solo una bottiglia striminzita di Limoncello ed una di Vodka scadente. Nient'altro.
"E la birra?", chiesi.
"Non l'abbiamo presa"
Fu un duro colpo da sopportare per una che era appena arrivata dalla Germania ma, nella mia infinità bontà, decisi di ingoiare il rospo e proseguire come se nulla fosse.
"Va bene. Ma il resto della roba da bere dov'è?"
"Da nessuna parte: è tutto qua."
"State scherzando, vero? Ma che c'avete fatto con tutti i soldi?"
E a quel punto gli occhi dei quattro mentecatti, responsabili dell'approvvigionamento, brillarono di lucida follia.
"Guarda che meraviglia", mi dissero orgogliosi, esibendo una vera e propria santa barbara. Avevano buttato i sudati denari di tutti noi in: petardi, tric e trac, bombe a mano e altre fesserie simili.

Partiamo dal presupposto che io odio i cosiddetti "botti" e che quindi non brillo per obiettività al ruguardo. Ma a voi sembra normale, per una spesa di 30 persone, comprare solo un pacchetto di patatine sbriciolate, appena un litro e mezzo di bevande, ma una quantità tale di petardi da far venir giù una valanga? No, dico, a voi sembra normale? A me no. E infatti, dimentica della mia magnanimità, cercai di staccare la testa degli sventurati a morsi, per poi berne il sangue sopra un altare votivo.
Il resto della comitiva, purtroppo, riuscì a staccarmi dai malcapitati e a calmarmi ricordandomi che, se mi fossi macchiata di omicidio plurimo, non sarei potuta tornare a Berlino.

A quel punto tutti noi, giovani, belli, e mentecatti sopravvissuti,  procedemmo alla vestizione.
La festa vera e propria si sarebbe tenuta in un appartamento poco distante e molto più grosso, dove ci aspettava un altro gruppo di amici di amici di amici di amici di amici.

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mercoledì 27 giugno 2012

32. Pigmalione

Quel 26 dicembre del 2000 lo trascorsi con il mio Ex.
Sì, proprio colui che tanto avevo amato.
Sì, proprio colui che mi aveva mollata per telefono senza troppe cerimonie.
Sì, proprio colui che mi aveva portato a scegliere l'espatrio pur di smettere di soffrire.

Ero arrivata a Torino da pochi giorni quando il mio cellulare trillò la sua innocua richiesta: "Ciao Pancrazia, ti va di venire a pranzo da me? Tagliatelle al ragù!"
"Ci vediamo a Santo Stefano", gli risposi.

La nostra relazione era finita per un sacco di ottime ragioni ma fondamentalmente perché a lui, ad un certo punto, era venuta la sindrome da Pigmalione. Quello di George Bernard Shaw. Quello che prende la fioraia cafona e, per scommessa, la trasforma in una signora dell'alta società.

Allo stesso modo lui aveva deciso di volermi cambiare, di voler rendermi una persona migliore, di voler farmi "uscire dal guscio" come amava ripetere spesso.
L'impresa in parte gli era riuscita. Mi aveva cambiata. Ma mi aveva cambiata in peggio, trasformandomi da ragazza gagliarda in una mollacciona insicura. Per poi chiudere il nostro rapporto con il più classico dei: "Non sei più la donna di cui mi ero innamorato."

Quel giorno di festa, dopo tutto il tempo passato e le esperienze vissute, ci ritrovammo nuovamente a casa sua. Da soli. Cuore a cuore. E ne approfittammo per raccontarci gli ultimi mesi che ci avevano visti distanti.
Lui elencò, con dovizia di particolari e dimostrazione di profonda sensibilità, i viaggi, le avventure, e perfino tutte le storielle sentimentali orgogliosamente inanellate fino a quel momento.
Io, reprimendo il desiderio di prenderlo a mazzate sulle gengive, gli raccontai del mio Erasmus, delle scoperte, delle risate e dei mille incontri.

Fu proprio nel bel mezzo di uno dei miei aneddoti berlinesi, che lui disse ciò che tanto a lungo avevo atteso: "Sei diventata così indipendente e sicura di te. Sei uscita dal tuo guscio!"
A quel punto ebbi l'occasione di rispondergli: "Lo scorso mese ho letto Pigmalione. Ne parlavi spesso, ricordi?"
"Certo"
"Ma tu l'hai mai letto?"
"No, però ho visto My Fair lady. E il libro com'è?"
"Bellissimo. Nella versione originale lei se ne va e lascia lui da solo, come un cretino."

Certe storie bisogna leggerle dall'inizio alla fine. Non ci si può affidare ai bignami o alle stucchevoli rivisitazioni hollywoodiane.
Certe storie bisogna viverle per coglierne il vero significato.
Certe storie, a loro modo, hanno comunque un lieto fine. Almeno per la protagonista femminile.


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lunedì 25 giugno 2012

31. Il ritorno della figliola prodiga

Il breve ritorno in Italia in occasione delle feste natalizie rappresenta un importante spartiacque per lo studente Erasmus tipo. Seppur per pochi giorni, si torna a casa. Si torna da mamma e papà. Si torna a godere di tutti gli inutili e intossicanti comfort a cui si è dovuto e potuto facilmente rinunciare pochi mesi prima.

Io lasciai Berlino una fredda e grigia mattina, salutata dai miei internazionali amici con la passione e lo struggimento che si dovrebbe a un giovane soldato diretto al fronte. Partii con il cuore pieno di malinconia e lo zaino vuoto per poter fare incetta di generi di prima necessità: la mozzarella di bufala, il parmigiano reggiano, cd, libri e qualche top sexy. Il minimo indispensabile per rendere più confortevole la seconda parte della mia permanenza in terra germanica. Del resto era solo quello che importava.
I parenti mi aspettavano in Italia e non vedevano l'ora di riabbracciarmi ma io, in quanto studente Erasmus tipo, me ne fregavo altamente. Desideravo solo che i giorni italici volassero via in fretta per poter tornare alla mia estera esistenza.

Atterrata a Torino provai fastidio per tutto: colori, odori e rumori. L'accento torinese? Orribile! Gli abiti italiani? Tristi! Ed il profumo del Curry Wurst? Dov'era finito il profumo del Curry Wurst?
Appena le porte automatiche del gate si aprirono venni travolta dall'amorevole e stritolante abbraccio dei miei familiari. Io all'inizio reagii riottosa e infastidita da tanto latino e chiassoso amore ma, appena tornata a casa, mi abituai rapidamente al trattamento di riguardo che mi era riservato. Divano, televisione, patatine, il tutto condito dal lusso di non aver nulla di urgente di cui occuparmi. Un rientro nell'accogliente bozzolo dell'infanzia prolungata. Il benvenuto all'emigrante che torna a casa, alla figliola prodiga, alla ragazzotta che in Germania non mangia abbastanza, "guarda come ti sei fatta magra, ci pensa mamma tua adesso a te".

È strano però, come pochi mesi lontani dalla mia patria, mi facessero sentire un'aliena. Ero partita a settembre e a dicembre amici e parenti mi sembravano estranei e vagamente fuori di testa. MammaCole su tutti.
"Cristina ha fatto questo", diceva, "Cristina ha fatto quest'altro. Cristina è tanto brava."
Tutto ciò mentre io allibita mi chiedevo chi cacchio fosse questa Cristina.
Pur avendo una famiglia numerosa, anche indagando fino ai cugini di terzo grado, a me di "Cristina" non ne risultava neanche una.
"Scusa, madre cara, non per essere indiscreta, ma sta Cristina chi cazz è?"
"Come non lo sai? Dove hai vissuto finora? E' una delle concorrenti del Grande Fratello!"
Avevo lasciato una nazione più o meno sana e, al mio ritorno, mi trovai in mezzo ad un branco di teledipendenti completamente folli.
Persino l'alternativa AmicaMeri sentì il bisogno di avvertirmi: "Guarda che qua sono diventati tutti pazzi. L'unico modo per sopravvivere è lasciarsi assimilare. Ormai esiste un solo argomento di conversazione: il Grande Fratello. Pure se non lo guardi ne devi conoscere le dinamiche, altrimenti sei destinato alla solitudine e all'isolamento sociale."
"Come quando in prima superiore eri un Paria se non guardavi Beverly Hills 90210?"
"Peggio. Molto peggio."

Ma io mi sentivo troppo internazionale e cool per occuparmi di tali facezie. L'inizio della fine del mio paese come l'avevo conosciuto fino ad allora non era più importante della mia nuova pettinatura da tedesca, del mio nuovo appartamento a Prenzlauerberg, e dei messaggi dei miei nuovi amici Erasmi che, ritornati in patria anch'essi, ululavano alla luna in attesa del ritorno all'amata Berlino.

Passai il Natale a scofanarmi panettoni e cannoli siciliani, e ad imboscarmi in valigia pandori da esportare oltre confine.
Poi fu la volta di Santo Stefano. Un Santo Stefano molto speciale. Un Santo Stefano con l'Ex.

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venerdì 22 giugno 2012

30. Per un pugno di marchi

Era ormai giunto dicembre ma, prima di tornare in quel di Torino per le vacanze natalizie, mi rimaneva ancora un importante incontro da fare. Quello con la temibile e temuta Frau MeMagnoLaTuaKautionen.

Una donna dal rigido caschetto nero ed il sintetico tailleur blu, che si aggirava per i corridoi dello studentato in cerca delle proprie vittime.
Il suo compito era semplice quanto spietato. La sua unica arma un block notes. Ella controllava le camere di coloro che avrebbero traslocato, trovava qualche magagna di cui incolpare gli inquilini in partenza, e quindi negava la restituzione della cauzione versata mesi prima dai suddetti.

Nel giro di pochi giorni l'arcigna figura aveva assunto contorni mitici, guadagnandosi un posto di riguardo tra i peggiori cattivi di tutti i tempi: un gradino sotto Freddy Krueger ma una spanna sopra Gargamella.
Tra quelli che ne avevano incrociato il cammino, c'era chi aveva dovuto rinunciare a metà dei propri soldi per la presenza di troppa polvere sul pavimento:
"Dobbiamo kiamare esperto con zuper makkinario per togliere tua orrippile sporcizia. Teniamo 200 marki di cauzione!"
"200 marchi? Per scopare un metro quadro di pavimento? E che è: un esperto della NASA? Guardi che quelli non sono mica resti di un asteroide ma solo briciole di biscotti!"
C'era chi avevo dovuto subire umiliazioni pubbliche e cazziatoni epici:
"Vergogna! Tu grande sporcaccionen. Io metto foto tua su tutti muri di studentato. Tutti devono sapere che tu grande zozzonen!"
C'era chi aveva dovuto mettere in pericolo il conto in banca e la salute per colpa di un segnetto di penna sulla scrivania di truciolato:
"Orroren! Kosa hai fatto? Noi ora dobbiamo cancellare sfregio su mobile antico. Tua kautione non basta vogliamo anche uno rene!" 


Il giorno che venne annunciato la visita della terribile Frau nel mio edificio fui testimone di vere e proprie scene d'isteria: qualcuno si buttò dalla finestra cercando rapidamente una via d'uscita, qualcun altro tentò di nascondersi negli scarichi del water. Io invece mi feci un caffè e, con l'aria soddisfatta di un micio che sta per papparsi un topolino, mi posi in attesa.

Ella spuntò dal fondo del corridoio quando i nostri sguardi s'incrociarono per la prima volta. Ci sorridemmo melliflue ed io mi compiacqui nell'intravedere nei suoi occhi il seme del dubbio e della paura. I di lei passi rimbombavano ritmati nel silenzio dell'Haus 17, mentre io l'attendevo di fronte alla mia porta con una sola grande consapevolezza: "Quando una Frau con caschetto e block notes incontra una DonnaCole con ricci e scopettone, quella con caschetto e block notes è una Frau morta".

Io, Jane Pancrazia Cole, sono l'ultima erede di un'antica stirpe. Io sono figlia di mammaCole, nipote di nonnaCole, pronipote di bisnonnaCole. La mia famiglia conta generazioni su generazioni di casalinghe disperate, donne fissate con la pulizia, isteriche che stirano persino le mutande.
Una tra noi due era destinata a soccombere. E non sarei stata certo io.

La Frau entrò nella mia stanza e, per un attimo, rimase abbagliata da tanto splendore. Poi, a poco a poco, recuperò il dono della vista. Nella mia camera tutto brillava. Pavimento, libreria, vetri alle finestre. Tutto era pulito. Tutto era perfetto. Perfetto.

La Frau aprì la bocca, poi la richiuse, poi l'aprì nuovamente per dire solo "Komplimenten!" e cadere a terra svenuta.

Io ebbi indietro tutta la mia cauzione. Lei venne vista lasciare lo studentato la sera stessa per non farne più ritorno.

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lunedì 18 giugno 2012

29. Casa dolce casa

"Sarai l'ultima tra di noi a trovare casa, ma vedrai che sarai quella a trovare il posto migliore."
Con queste profetiche parole Eli si congedò.

Io rimasi da sola a leggere l'annuncio. Questo rispondeva ad ogni mio desiderio: giusto il quartiere, perfetto il periodo, onesto l'affitto.
Era la mia ultima occasione. Da un lato avevo la nanetta odiosa, dall'altro il gattaro-serial killer, di fronte una splendente via d'uscita.

Il giorno dopo mi recai all'appuntamento. Il palazzo era il classico vecchio edificio della Berlino est: scrostato e trascurato, ma deliziosamente bohemienne.
Venni accolta da Anke, la proprietaria tedesca e Marije, la coinquilina olandese.
La prima aveva in progetto di trascorrere qualche mese in un'università brasiliana e, per questo motivo, voleva affittare la sua stanza dal primo di gennaio al 15 di aprile. Mentre parlava del Sud America nei suoi occhi non si leggeva tanto l'entusiasmo accademico, quanto quello per le lunghe spiagge bianche e soprattutto per gli scultorei ragazzi carioca strizzati in micro costumini.
La seconda era una studentessa erasmus, olandese di nascita, svizzera d'adozione ed australiana da parte paterna. Carina e simpatica, per mettermi a mio agio, dichiarò persino di saper parlare un poco d'italiano. In realtà risultò subito chiaro che sapesse dire solo quattro parole in croce, ma io apprezzai comunque lo sforzo.
L'appartamento era fantastico, la camera meravigliosa, Anke gentile, Marije uno zuccherino. Era decisamente tutto troppo bello per essere vero. Le probabilità che una tale fortuna potesse capitare a me erano prossime allo zero.

Desiderosa di porre fine in fretta alle mie sofferenze e di non crogiolarmi troppo in inutili illusioni, misi subito le carte in tavola. 
"In quanti hanno già visto l'appartamento?", leggasi "Che posto occupo in graduatoria? Sono almeno nella top 100?"
"Nessuno, sei la prima. Abbiamo appena messo l'annuncio."
"Io avrei un po' di fretta. Quanto ci vorrà per sapere qualcosa?", leggasi "Ditemi subito che preferireste essere morse da un coguaro piuttosto che affittare la stanza a me, e togliamoci il pensiero!"
"Se vuoi te lo diciamo subito: per noi vai bene tu."
"Danke", leggasi "Alleluia, Alleluia, Alleeee-luia"

Il destino bizzarro aveva deciso di ammantarsi d'improvvisa magnanimità e farmi un regalo. Marije ed io avremmo diviso per tre mesi e mezzo un appartamento da sogno in Marienburgerstrasse a Prenzlauerberg. Ed io avrei trascorso le mie notti in un enorme letto, al centro di una stanza luminosa che sembrava l'atelier di un'artista.

Eli, la profetessa romana, aveva avuto ragione.
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mercoledì 13 giugno 2012

28. Cercasi casa disperatamente

Scontenta per la posizione periferica dello studentato, a Novembre compilai il modulo di rinuncia alla mia camera. Dal momento della consegna avrei avuto a disposizione un mese prima di dover andarmene.
Trenta giorni per trovare l'appartamento dei miei sogni. Trenta giorni per cercare un nuovo posto dove stare. Trenta giorni per non finire a dormire sotto un ponte. Trenta giorni possono essere tanti ma anche pochissimi.

Carica di ottimismo ma anche di una certa ansia, mi imbarcai nella ricerca della mia nuova casa. Lo scopo ultimo consisteva nel trovare una stanza in una WG(alloggio diviso tra più adulti, studenti o meno), in un bel quartiere e ad un prezzo ragionevole.
La concorrenza era agguerrita, le offerte decenti inferiori alle domande, l'impresa ardua. Fatica, frustrazione e scoramento sarebbero stati i miei fedeli compagni per alcune intense settimane.

Ogni sabato mattina mi recavo in edicola a comprare i giornali specializzati, spulciavo tutti gli annunci, selezionavo le proposte più interessanti e poi telefonavo per prendere appuntamento. Il momento topico di ogni conversazione era sempre lo stesso:
"Wie ist die Adresse?"(*)
"Sbaragnaustrasse"
"Eh???"
"Superkazzolenstrasse"
"Wasssssss?"
Erano pochissime le volte in cui capivo l'indirizzo al volo, spesso dovevo chiedere lo spelling ed in alcuni imbarazzanti e penosi casi neanche ciò era sufficiente. Allora mi armavo di stradario e pazienza e, andando per tentativi ed assonanze, alla fine risolvevo il mistero e risalivo al nome esatto della via. Un’acuta detective? No, semplicemente una ragazza disperata e caparbia.

Nel giro di un paio di settimane vidi molti appartamenti. Quelli migliori venivano presi d'assalto da orde di giovani. Ci ritrovavamo in fila, come all'ufficio di collocamento o ad un provino per il Grande Fratello. Non eravamo noi a "giudicare" la casa, ma i futuri coinquilini a decidere quanto noi fossimo all'altezza del giaciglio offertoci. Quelli peggiori erano ovviamente molto meno ambiti. Del resto non c'era da stupirsi che non ci fosse la fila per accaparrarsi un sottoscala caro quanto un attico, per godere la gioia di un’ottantenne come coinquilina, o per provare l’ebbrezza di vivere in mezzo ad una banda di spacciatori.

Dopo molti appuntamenti e infinite delusioni, le opzioni vagamente accettabili rimaste a mia disposizione erano solo due. Potevo scegliere se vivere con "Rosemary' s Baby" o lo "Psycho Brother".
Il primo alloggio si trovava nel mio quartiere preferito: Prenzlauerberg (ora entrato a far parte del distretto di Pankow). Vitale polo di attrazione per artisti e giovani provenienti da tutto il mondo, pieno di Caffè, negozi colorati e ristorantini etnici.
Andando all'incontro guardai le strade ed i palazzi limitrofi con commozione, iniziai a salire le scale con una rinnovata speranza, bussai alla porta con il cuore gonfio d'attesa. Dopo un secondo l'uscio si aprì, io sfoderai il migliore dei miei sorrisi, ma davanti a me non trovai il tipico fricchettone berlinese o l'ennesimo studente Erasmus, bensì una bambina. Una bimba con il viso imbronciato e lo sguardo rabbioso. I miei futuri coinquilini sarebbero dovuti essere un padre single, giovane e belloccio, e la di lui figlia, una bimbetta con l'aria dolce e rassicurante della protagonista de L'Esorcista.
Mentre il papà mi mostrava l'appartamento, l'adorabile frugoletto mi lanciava sguardi carichi d'odio. Mentre sedevamo tutti intorno ad un tavolo, l'angioletto germanico tentava di prendermi a calci.
Mentre parlavamo di affitti e spese, la fetente lillipuziana precisava che: "Io questa in casa MIA non ce la voglio!"
La camera da affittare era enorme e bella, l'alloggio fantastico, il quartiere il meglio che io potessi desiderare, ma l'idea di convivere con la bimba posseduta dallo dimonio mi frenava assai. Quindi, me ne andai con un vago "Mi faccio sentire io" ed affranta arrancai verso la mia ultima destinazione: l'appartamento dello Psycho Brother.
Il quartiere era periferico, quasi quanto quello dello studentato, e l'edificio un casermone in pieno stile sovietico. Una tristezza infinita.
Ad aspettarmi trovai: un ragazzo alto e smilzo, proprietario dell'immobile; una ragazza coreana, che si era appena aggiudicata l'ultimo posto decente disponibile, lasciando a mia disposizione uno sgabuzzino con lucernaio; tre gatti piscioni e lo Psycho Brother. Quest'ultimo, fratello del proprietario, se ne stava rigorosamente chiuso a doppia mandata nella propria stanza perché "preferisce stare per i fatti propri", "non ama gli estranei" ed "è un po' strano, ma tranquillo".
La casa era carina, ma la brutta posizione, le dimensioni della mia camera e soprattutto la presenza dello strano figuro di cui sopra, mi facevano intravedere terribili quadri futuri. Che andavano dall'obbligo di dividere il mio misero giaciglio con i tre gatti piscioni fino al mio accoltellamento sotto la doccia.
La mia calda ed accogliente stanzetta a Schlachtensee non mi era mai parsa così bella e sicura.

Tornai a casa terribilmente scoraggiata ma, mentre affogavo i dispiaceri in un thè alla cannella, qualcuno bussò alla mia porta:
"Ciao Pancrazia"
"Ciao amichetta Eli"
"Com'è andata la ricerca?"
"Un disastro"
"Non ti preoccupare, ho trovato questo numero sulla bacheca di Fisica. È l'appartamento perfetto per te!"

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(*) Qual è l'indirizzo?

lunedì 11 giugno 2012

27. Chi è Fumiki?

Ora ve lo spiego.

Dopo i primi giorni di assestamento allo studentato, iniziai a notare un ragazzo schivo e silenzioso che si aggirava sul mio stesso piano, cucinava nella mia stessa cucina e si lavava sotto la mia stessa doccia.
Io lo salutavo con un garrulo "Hallo", mentre lui rispondeva con un formale e volutamente distante "Guten Morgen".
Gioiosa io.
Glaciale lui.
Affettuosa io.
Distaccato lui.
Tale siparietto venne a ripetersi per giorni, ma io non mi arresi, la sua freddezza non mi fece desistere ed alla fine ebbi la meglio. Una mattina all'ennesimo algido saluto risposi con un sorriso ed una tazzina di caffè fumante. Lui, issando bandiera bianca, ricambiò con una zuppa liofilizzata.
La stalker dal pigiamone rosa aveva avuto la meglio sul silenzioso samurai.

Seduti alla stessa tavola iniziammo a parlare e raccontarci.
Fu così che nacque la nostra amicizia.

Fumiki era giapponese e studiava economia.
Dimenticate il tipico giovane nipponico occidentalizzato, buffo e fissato con i congegni elettronici.
Lui proveniva da una famiglia umile, era nato e cresciuto in una zona rurale e cercava di costruirsi un futuro grazie all'impegno e al talento negli studi.
Anche a Berlino seguiva un regime di vita molto spartano, la sera non usciva quasi mai, sfuggiva la confusione e, se c'era abbastanza silenzio nell'Haus 17, lo si poteva sentire suonare lo shakuhachi chiuso nella propria stanza.
Era serio ed a tratti persino cupo. Educato, ma a volte scostante.

Fumiki era pieno di pregiudizi nei confronti degli studenti Erasmus,"una massa di festaioli ubriaconi", e gli italiani, "frivoli, pigri e inaffidabili".
Cercò a lungo di collocarmi in queste due categorie, ma con grande disappunto scoprì che io sballavo ogni sua ottusa certezza. Uscivo spesso, ma non tornavo ubriaca. Facevo tardi, ma mi svegliavo presto. Mi divertivo, ma frequentavo l'università regolarmente.
Alla fine dovette ammettere a malincuore che forse non ero io a rappresentare chissà quale rara eccezione, ma lui ad essere parecchio prevenuto.
Dovette arrendersi al fatto che anche i festaioli hanno un cervello e che gli italiani non si alzano a mezzogiorno.

Io e Fumiki parlavamo di tutto: dalla storia italiana alla cultura giapponese, dalla religione all'ecologia, dai cartoni animati alla cucina.
Lui amava il Risorgimento e mi faceva mille domande a cui spesso io, ignorante come una capra, non sapevo rispondere.
Io mi infuriavo per la caccia alle balene. Pratica barbara che lui collocava tra le antiche e legittime tradizioni.
Lui si stupiva dei cartoni animati nipponici, più o meno lascivi od espliciti, che in Italia venivano considerati adatti ai bambini, e neanche la mia rassicurazione circa una rigida censura lo rasserenava.
Io lo aiutavo a preparasi la carbonara, ma poi inorridivo scoprendo la sua intenzione di mangiarsela il giorno dopo per colazione.

Fumiki ogni tanto diventava un poco strano, ma mentre io imputavo questo suo comportamento alle diversità culturali, le mie amiche Comari mi dicevano più o meno così: "Ma guarda che quello ce stà a provà".
Ed oggettivamente tutti i torti forse non li avevano.
Le sue attenzioni nei miei confronti col passare del tempo divennero sempre più simili a quelle di un uomo per una donna e non di un amico per un'amica.
Ogni scusa era buona per parlare un po' con me. Ogni scusa era buona per farsi trovare al mio fianco. Ogni scusa era buona per un regalo o un piccolo pensiero. Doni di poco valore, ma che sottolineavano il suo affetto nei miei confronti. Una fetta di torta portatami nella lavanderia a gettoni dove stavo facendo il bucato, tante meravigliose gru colorate create dall'arte delle sue dita sottili, una tazza di Glühwein(*) da dividere in due, e persino un piattino celeste per la mia tazzina dell'espresso.

Forse per troppa timidezza o per la consapevolezza che ci dividesse un'insormontabile montagna di differenze culturali, Fumiki non disse mai niente di diretto circa i suoi sentimenti ed io ignorai sempre, più o meno consciamente, tutti i segnali indiretti.

La storia rimase così. Sospesa. Perfetta per essere ricordata a distanza di anni con un sorriso e tanta tenerezza.

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(*) vin brulé tedesco

Pancrazia in Berlin - Il Ritorno

Poche righe per avvertire i lettori distratti e i passanti ignari che dall'altra parte, su Radio Cole , sto raccontando il mio ultimo vi...