venerdì 30 marzo 2012

13. Die Schwarzwaldklinik

Superati i giorni di adattamento, la fase da turista, lo stupore per i primi surreali incontri e gli episodi imbarazzanti, iniziò finalmente anche la mia vita vera e propria da studentessa di medicina all’estero.

Per cominciare subito con il piede giusto, al primo incontro di noi stranieri con la coordinatrice ed i nostri buddy(*) mi presentai con un olimpionico ritardo.

Io, tra gli altri, ho due grandissimi difetti: sono assolutamente incapace di essere puntuale e totalmente priva di senso dell’orientamento.
Riguardo al primo ho una mia teoria: essendo nata con più di quattro settimane di anticipo godo di un bonus di tempo da utilizzare per arrivare tardi agli appuntamenti. Ma ormai negli anni ho accumulato così tanto ritardo che, per giustificarlo, dovrei aver visto la luce alla seconda o terza settimana di gestazione.
Per quanto riguarda l’orientamento, anche in questo caso ho un’inattaccabile teoria: sono rimbambita. Se devo scegliere tra due direzioni, scelgo sempre quella sbagliata. Se fossi una di quelle cavie che, all’interno di un labirinto, devono trovare l’uscita per meritarsi il formaggio, sarei una cavia morta di fame.

Quindi, sommando queste due caratteristiche al fatto che mi trovassi in una città che mi era ancora per lo più sconosciuta, il risultato fu inevitabile.
Prima di arrivare alla Benjamin Franklin, sede della facoltà di medicina della Freie Universitaet, finì in una clinica abbandonata prossima alla demolizione e poi in un casermone più simile ad un carcere che ad un ospedale.
Finalmente, quando ormai avevo perso ogni speranza, con un’ora abbondante di ritardo sulla tabella di marcia, trovai la clinica giusta.
Un ospedale enorme, lindo e nuovissimo, immerso in un parco col prato all’inglese, dove passeggiavano dottori affascinanti dai camici perfettamente stirati e pazienti dalle gote rosee e lo sguardo pieno di speranza per il futuro. O io ero talmente felice di avere trovato finalmente il posto giusto da avere le allucinazioni, o parte dei soldi del sistema sanitario tedesco vengono spesi per pagare dei figuranti che diano ai nosocomi quell’aria tipica da “La Clinica della Foresta Nera”. A tutt’oggi propendo per la seconda ipotesi.

Raggiunsi i miei compagni nel mezzo di una visita guidata delle varie aule. Brigitte, la coordinatrice col vocione e la stazza da tedesca cattivissima ma la facciotta tonda ed il sorriso rassicurante della tedesca buona che vive in un alpeggio, mi prese da parte. Io ero già pronta a beccarmi il primo cazziatone in lingua crucca ed invece lei, con fare cospiratorio, mi sussurrò: “Felix, il tuo buddy, è già andato via ma mi ha detto che vi vedrete al prossimo incontro, ok?”. Il tutto accompagnato da una strizzatina d’occhio ed un sorriso malandrino. Io ero troppo felice di non essere stata sgridata per interessarmi d'altro, e solo al successivo appuntamento avrei compreso la strizzatina d’occhio, il sorriso malandrino e la ricerca di complicità tra donne. Ma non voglio anticiparvi troppo.

Alla fine del giro turistico tornammo tutti nell’ufficio Erasmus, dove ci venne chiesto se ci fosse qualcuno in difficoltà con il tedesco. Due timide mani si alzarono, la mia e quella di un'altra ragazza, entrambe italiane. Della serie: facciamoci sempre riconoscere.
Gitte (Brigitte) ci consigliò di cercare un corso intensivo di lingua, mentre lei avrebbe organizzato gli orari delle nostre lezioni in modo da riuscire a fare incastrare il tutto. Miracoli dell'efficienza teutonica.

Appena rimaste sole, l’altra ragazza, dotata di un ego spropositato secondo solo alla sua travolgente simpatia, mi raggelò con un acido ”A me non serve un corso, mi basteranno solo poche ore: sono sempre stata molto portata per le lingue”, a cui io risposi sinceramente con un “Beata te, io mica tanto.”
Da quel momento le nostre strade si divisero. Ma non per sempre.

(*)buddy: indigeno il cui compito è rispondere alle moleste richieste e insidiose domande dello studente straniero in trasferta germanica.

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giovedì 29 marzo 2012

12. Le Comari

I primi giorni dell’Erasmus sono inevitabilmente dedicati a burocrazia e acquisti di prima necessità. Una volta ottenuto un giaciglio dove poggiare le proprie stanche membra bisogna aprire un conto bancario a garanzia, ufficializzare la residenza, fare l’abbonamento mensile dei mezzi per evitare di spendere un fantastigliardo in sei mesi, acquistare stoviglie e via dicendo. Tutti questi passaggi si compiono in gruppo. Perché, per quanto si possa essere spavaldi e disinvolti, tante cose assieme fanno un po’ paura, ed avere qualcuno a fianco con cui condividere scoperte e ritardi, timbri apposti ed insormontabili mura burocratiche può essere molto rassicurante. È per questo motivo che, per i primi giorni, gli studenti Erasmus si muovono in macrogruppi mononazionali.
Noi italiani, particolarmente numerosi, ci separammo spontaneamente in sottoinsiemi nati da istintive affinità, immediate simpatie, geografiche vicinanze. Questi gruppi poi con il passare del tempo si sarebbero sfilacciati, amalgamati con altri, mischiati fino a creare compagnie eterogenee e internazionali. Compagnie di amici provenienti da tutta Europa e da tutto il mondo.

Questi sono gli amici ma poi c’è anche la famiglia. No, non quella che ti aspetta in patria con un piatto caldo e il magone di mamma che “sta tanto in pensiero”.
La famiglia che istintivamente ti costruisci all’estero per avere una tana. Per avere un nucleo originario in cui rientrare a ricaricare le pile, a cercare sostegno incondizionato, a godere di sfacciato affetto.
Io avevo delle sorelle. Eravamo in sei. Sei sorelle. Degne della più classica letteratura. Noi eravamo le March della Alcott oppure le Bennet della Austen. Noi eravamo Jo, Amy, Meg o Liz. Noi eravamo tutto questo e molto di più. Noi eravamo e siamo le Comari. Le allegre comari di Windsor. Scoperteci per caso e per fortuna. Amiche a Berlino dodici anni fa e amiche ancora adesso.

Tutte italiane e tutte diverse.
Renée, la sorella maggiore, non per mere questioni anagrafiche ma per una predisposizione naturale. Da Brooklyn a Formia. Da Formia a Berlino. Chi può reggere shock culturali di tale portata, senza alzare neanche un sopracciglio, è destinata a guidare le folle, ad allacciare amicizie con tutto il mondo, a tenere la schiena dritta e lo sguardo fiero di fronte a tutte le avversità. A non mollare il timone neanche nella burrasca, anche se dallo sforzo sanguinano le mani, anche se delle volte sarebbe bello far capitanare la nave a qualcun altro e mettersi sul ponte a prendere il sole.
Sissi, figlia delle notti romagnole e della piadina, organizzatrice di eventi fin dalla culla. Una donna dalla punteggiatura risoluta. Per lei niente puntini di sospensione ma solo punti esclamativi. Per lei nessuna domanda ma solo risposte. A vent’anni i bambini le facevano orrore. Superati i trenta ne ha fatti 3, perché lei è un’ingorda e la vita l’affronta a testa bassa e bocca aperta. Aperta a divorare il mondo con un’allegra incontenibile follia.
Gra', la sorella bella. In tutte le famiglie ce n’è una. Nella nostra c’è lei. Bella come solo una donna del sud dal sangue campano sa essere. Bella di una bellezza sfacciata che non provoca invidia ma mette allegria. Bella e intelligente, ma anche sciroccata e imprevedibile. Gra' è la regina della notte che però va a dormire alle 22:30 perché ha sonno. Gra' è tutto e il contrario di tutto. Gra' era berlinese ancora prima di arrivare a Berlino, ma non sarebbe mai stata in grado di uscire senza cartina neanche dopo 6 mesi di permanenza. Perché lei è l’unica persona al mondo ad avere un senso dell’orientamento peggiore del mio.
Eli è la sorella minore. Quella che ha bisogno di sostegno ed aiuto. Quella che da piccola avrebbe voluto una famiglia normale, avrebbe voluto farsi la comunione con le sue amichette, avrebbe voluto tante cose. Quella che da piccina, con le trecce ed il pigiama rosa, entrava in un affollato soggiorno dei Parioli per augurare la buona notte a mamma e papà. A mamma, papà e a tutti i loro amici sempre in riunione.
“Buonanotte compagna Eli”, le dicevano.
“Buonanotte compagni”, rispondeva lei con poca convinzione.
Eli è fragile ma indistruttibile. Eli con il suo gatto nero dall’evocativo nome biblico: Giuda.
La Mari è la sorella in gamba. Dove gli altri tentennano, lei sorride. Dove gli altri faticano lei corre. Vissuta in una famiglia piena di uomini, scelse una facoltà da maschi, esibendo una femminilità naturale e mai ostentata. Durante i felici mesi tedeschi, La Mari non ha comunque mai smesso di pensare con nostalgia al suo lago di Como. Ci pensava mentre si adattava senza fatica e con superiore distacco all’immensa Berlino. Berlino che stregava ed ammaliava tutti. Tutti tranne lei. Lei che non si faceva conquistare ma conquistava.

E poi c’ero io. Ci sono io. E di me sapete già tutto.

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sabato 24 marzo 2012

11. Basso profilo

Berlino. Ufficio Erasmus.
Una babele di voci e di visi. La consapevolezza di stare vivendo un’esperienza unica, un’occasione da cogliere, un'avventura da assaporare attimo per attimo. Decine di studenti provenienti da tutta Europa e appartenenti alle facoltà più diverse, tutti accalcati in una stanzetta a compilare moduli e ad aspettare pazientemente il proprio turno.
 
Dopo molte ore di attesa finalmente toccò a me. Sorridente consegnai il mio foglio e, altrettanto sorridente, salutai e mi avviai verso l’uscita.

"Aspetti un momento signorina", venni bloccata.
Mi si raggelò il sangue nelle vene. Tutta la vita mi passò davanti agli occhi come un film: il carillon con le apine sulla culla, le ginocchia sbucciate che bruciavano come l'inferno, il primo giorno di scuola con la cartella rossa e blu, gli occhi belli del mio compagno di banco, il saggio di danza con il tutù cucito da mamma, i balli lenti alle feste delle medie, il primo bacio senza lingua, il primo bacio con la lingua, gli amori, le delusioni, le albe in spiaggia, l’arrivo in Germania.

Lo sapevo: era troppo bello per essere vero.
Ci doveva essere stato un errore.
Non avevo vinto nessuna borsa di studio.
Mi avrebbero rimandata in Italia.
A calci.
"Si?", risposi cercando di mantenere un’aria dignitosa.
"Lei è italiana e studia medicina?"
“Già”
"Abbiamo bisogno di lei"
"Di me?"
"Dovrebbe partecipare all’apertura dell’anno accademico".
Alla cerimonia avrebbe dovuto prendere parte un gruppo rappresentativo di Erasmus: giovani di diverse facoltà e diverse nazionalità. Alla collezione mancavano un italiano ed uno studente di medicina. Io, per mia sfortuna, appartenevo ad entrambe le categorie. Ero la figurina mancante che completava l'album.
"Sarebbe meglio che sceglieste qualcun altro. Io parlo pochissimo tedesco. Anzi, guardiamo in faccia la realtà, non lo parlo proprio!"
"Non c’è alcun problema, non dovrà dire nulla, ma solo sorridere e stringere la mano al Rettore."
"Me lo giura?"
"Si"
"Ok, ma so già che me ne pentirò.”
Essere rispedita a Torino sarebbe stato sicuramente peggio, ma anche l’idea di prendere parte ad una cerimonia ufficiale mi metteva addosso non poca ansia. Immaginavo mille catastrofici scenari, che andavano dall’inciampare e planare di faccia sul palco, al cadere dal suddetto palco e planare di faccia sulla platea.

Arrivato il fatidico giorno però ero abbastanza rilassata, pronta a mettere in atto il mio diabolico piano.  Dovevo semplicemente mantenere un basso profilo, il più basso possibile. E rendermi invisibile, magari occultandomi abilmente dietro le piante che ornavano la sala. Arrivare, annuire, sorridere e nient’altro. Ce la potevo fare. Con un po' di fortuna e la giusta congiuntura astrale avrei concluso la mattinata senza figuracce e imbarazzi. Scelsi anche un abbigliamento adatto allo scopo: pantaloni neri e camicia verde scuro, in pratica una tuta mimetica per signorine.
Purtroppo il mio progetto iniziò a scricchiolare appena vidi il posto assegnatomi: in braccio al Rettore. Altro che passare inosservata, stavo in prima fila lungo il corridoio centrale. Occupavo il posto d’onore. Secondo me quelle burlone dell’ufficio Erasmus l’avevano fatto apposta, e questo era un tipico esempio di umorismo tedesco.
L’umorismo tedesco fa schifo.

Un po’ meno tranquilla di quando ero entrata mi sedetti e attesi l’inizio.
Il maestro di cerimonia era un noto giornalista televisivo locale, che si lanciò in un appassionato discorso sull’importanza della fratellanza tra i paesi europei, e sulla bellezza di questi scambi culturali tra studenti.
Io, a schiena dritta ed orecchie spalancate, cercavo di non perdermi neanche una sillaba, pronta a scattare in piedi quando ci avessero chiamato.
Subito dopo prese la parola il Rettore ed il registro cambiò completamente. Egli era decisamente meno incisivo, molto più prolisso e parecchio soporifero. La mia posizione da cane da caccia lasciò rapidamente il posto a quella di un gattone spalmato su una poltrona. Orecchie basse, schiena accartocciata, palpebra calante e mente persa nell’infinito ed oltre.
Fino a quando, con mio sommo orrore, mi resi conto che nella sala era calato il silenzio e che tutti mi stavano osservando con aria interrogativa.
La ragazza che mi era seduta accanto mi ringhiò a denti stretti: “Che stai aspettando? Alzati, tocca a noi!” Ed io a capo chino mi trascinai con fare colpevole fino al palco, dove strinsi mani e stiracchiai un imbarazzato sorriso.

Questo fu l’inizio del mio anno accademico: non osavo neanche immaginare come sarebbe stato il seguito.

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giovedì 22 marzo 2012

10. Facce da studentato

La vita all’interno di uno studentato scorre veloce.
Il giorno prima sei un nuovo arrivato, non conosci nessuno e ti orienti a fatica. Il giorno dopo inizi a costruirti quella rete di conoscenze che ti accompagnerà per i mesi a venire.
Il giorno prima ti sembrano tutti strani ed alcuni ti fanno anche un po’ paura, il giorno dopo hai la certezza che alcuni di loro siano davvero molto strani, ma invece d’intimorirti t’incuriosiscono e divertono.
Come il "Professore Vietnamita”, giovane docente universitario momentaneamente prestato all'Europa. Piccoletto e pieno di energia, custodiva nella propria minuscola e caotica stanza la strumentazione sufficiente per procedere alla fusione a freddo, alla costruzione di uno shuttle e, in caso di necessità, anche alla preparazione dei tortelli di zucca.
O lo “Spagnolo Smutandato”, anello di congiunzione tra un orso bruno ed un tirannosauro. Arrancava per i corridoi sciabattando, grattandosi alternativamente la pancia o il sedere, e rispondendo ai saluti altrui con grugniti intellegibili.
Oppure l’inquietante “Donna Fantasma”, ragazza d'ignota provenienza, che usciva dalla propria stanza solo per riempire un bollitore in cucina e poi, veloce com'era venuta, tornava a rinchiudersi in camera. Senza proferire parola alcuna e senza alzare lo sguardo dal pavimento. Nessuno sentì mai la sua voce, al punto che alcuni di noi sono tuttora convinti di essere stati vittime di un’allucinazione collettiva e che lei, in realtà, non sia mai esistita.
O, ancora, l’adorabile “Irlandese Sciroccata”. Tanto dolce quanto svampita. Un viso tondo incorniciato da lunghi capelli biondi e due occhi a palla sempre spalancati verso il mondo. Lei non sembrava giungere solo da un altro paese ma proprio da un altro pianeta. Forse, date le sue origini, non era neanche un essere umano, ma un folletto con tanto di arcobaleno e pentola d’oro custoditi gelosamente sotto il letto.
Per non parlare del “Cinese Iperattivo”. Esagerato in tutto: altissimo, in perenne movimento, affetto da un buon umore tanto eccessivo da risultare irritante, e soprattutto logorroico. L’unico modo per sfuggire al fiume di parole con cui ti travolgeva era pronunciare la formula magica: “Vieni a farti un giro ad Est?”
A quel punto si bloccava, emetteva un segnale acustico ed il nasone prendeva a lampeggiargli, “No, Est no. Est pericoloso”. Avete presente l’Allegro Chirurgo? Uguale.
Il ragazzone era convinto che la parte orientale della città fosse popolata da migliaia di Naziskin, armati di mazze ferrate e alla continua ricerca di poveri stranieri, meglio se cinesi, da corcare di botte. Nessuno riuscì mai a convincerlo del contrario.

Ma il mio preferito rimane di gran lunga lo “Svizzero in vetrina”, ragazzo buffo ed esibizionista, che viveva al pian terreno in uno stanzone con enormi finestre e senza tende. Lui dormiva, studiava e ascoltava musica, il tutto davanti ai nostri sguardi curiosi che, in assenza della televisione, si accontentavano di questo reality show live.

La varietà del genere umano non finirà mai di stupirmi.

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mercoledì 21 marzo 2012

9. Alles Gute zum Geburtstag, Deutschland!

Il mio arrivo a Berlino coincise con i festeggiamenti per il decimo anniversario della riunificazione politica della Germania. Il 3 ottobre 1990 i tedeschi dell'est e dell'ovest erano tornati ad essere ufficialmente un unico popolo, il 3 ottobre del 2000 alcuni amici ed io cominciammo ufficialmente a fare un po' di sana bisboccia erasmica.

Nel 1989 quando, insieme a tutto il mondo, avevo osservato in tv la gente che si abbracciava, buttava giù pezzi di muro e beveva birra, ero perfettamente consapevole di star assistendo ad un momento di storia. Ma mai avrei pensato che, undici anni dopo, mi sarei trovata a festeggiare nei medesimi luoghi. Forse anche con la medesima gente.
Quel 3 ottobre del 2000 in piazza c'erano tutti: i turisti, gli studenti stranieri, i berlinesi di prima o decima generazione. Tutti, compresi i nostalgici abitanti dell'est che, passata la sbornia euforica dei primi tempi, si trovavano a celebrare una nazione che li aveva accolti, abbracciati, e strangolati. Nostalgici di un mondo che stava scivolando via dalle loro mani e dalla memoria collettiva, reggendosi solo su pochi simboli ancora presenti ma già sbiaditi e commercializzati all'"americana", come le orride ma ricercatissime Trabandt e l'adorabile omino del semaforo (Ampelmännchen).

Quel pomeriggio, immersa nella folla di una soleggiata giornata di festa, imparai moltissime cose.
Imparai che i tedeschi fanno la fila ordinatamente e dignitosamente anche per utilizzare un bagno chimico. Bagno chimico che, però, puzza della stessa puzza fetente di quelli italiani.
Imparai che la diabolica unione di cucina tedesca e turca sarebbe stata la mia rovina. Una rovina colesteronicamente piacevolissima.
Imparai che i tedeschi, per una delle celebrazioni più importanti della loro storia recente, avevano scelto di mettere su un baraccone da poveracci, indegno del più disastrato festival della porchetta nostrano.
Imparai che al mondo c'era chi, alto un metro e una mela, con addosso una camicia hawaiana, un paio di sandaletti e degli occhiali da sole con le lenti gialle, riusciva a sentirsi comunque un gran figo.
Imparai che c'era anche qualche sciagurato che viveva l'Erasmus come una tortura, e contava i giorni che lo dividevano dal ritorno in patria.
Imparai che il destino ti fa conoscere per caso e per fortuna le persone giuste che, nonostante la vita si diverta sempre ad allacciare e slacciare rapporti, ti rimarranno amiche anche dopo più di dieci anni.
Ma sopra ogni cosa imparai che, se essere nel posto giusto al momento giusto è difficile. Essere nel posto sbagliato al momento sbagliato è un'arte.
Arte in cui, non per vantarmi, io eccellevo ed eccello tutt'oggi.

Dopo aver sentito l'ennesimo neomelodico tedesco, anche se lo spumeggiante spettacolo non era ancora terminato, decisi di tornarmene a casa. Appagata e divertita, varcai la soglia della mia accogliente stanzetta, quando mi arrivò un solerte sms dall'Italia. Uno dei miei cugini mi scrisse: "Sarai contenta, finalmente l'hai visto dal vivo!".

Boris Becker era salito sul palco della fiera della porchetta per dare la sua benedizione urbi et orbi alla folla in deliquio. I miei parenti in Italia l'avevano visto al tg. Io me l'ero perso dal vivo per cinque minuti. Cinque stramaledettissimi minuti.

Com'è nel mio stile, presi la curiosa poco propizia coincidenza con molta calma. Allo studentato ancora si ricordano le urla di dolore della "piccola italiana indemoniata".

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venerdì 16 marzo 2012

8. Schlachtensee

Il terzo giorno di permanenza a Berlino mi recai allo studentato.
Schlachtensee, questo era il suo nome, era costituito da numerosi piccoli edifici, sparsi in quella che poteva definirsi una via di mezzo tra un boschetto ben tenuto ed un parco abbandonato. Vi erano una segreteria, un pub, una macchinetta che distribuiva preservativi, e gli alloggi per noi studenti. Il tutto localizzato in una zona residenziale della città, distante anni luce da qualsiasi forma di svago. La morte sociale.

L'iter da seguire per noi nuovi arrivati era il seguente: le segretarie ti facevano firmare il contratto d'affitto, ti assegnavano una stanza e ti dotavano di cartina. Detto così sembra semplice, peccato che le indicazioni per l'alloggio non fossero del tipo: casa 15, secondo piano, interno 3. Ma consistessero in un codice infinito di cifre, con il quale sarebbe stato più semplice aprire il caveau di una banca in Svizzera piuttosto che trovare la propria camera.

Nonostante il mio senso dell’orientamento sia paragonabile a quello di un novantenne rimbambito, riuscì comunque a trovare la mia palazzina: la 17, giusto per cominciare bene.
All'ingresso fui intercettata da un ragazzone keniano, alto due metri e largo quanto un armadio che, notando la mia aria smarrita da "pulcino allo svincolo di Roncobilaccio", si mise una mano sulla coscienza, oltre che il mio zaino sulle spalle, e mi accompagnò fino alla porta giusta.

L'arredamento di ogni stanza era costituito da una scrivania, un armadio, un letto ed una libreria: il tutto stipato in 3 metri quadri. La camera era molto anonima e spoglia, ma nel giro di poche settimane l’avrei trasformata nella mia accogliente cuccia. Prodigio reso possibile da una semplice tendina a fiori, un colorato copripiumone, bellissime cartoline pubblicitarie in omaggio ovunque, oggettistica varia proveniente dall’immancabile catena svedese di design low cost (sì, quella, proprio quella, quella con le libidinose polpette), e preziosi ninnoli scovati nei numerosi mercatini sparsi in giro per la città.

La prima delle tante persone incredibili che conobbi a Schlachtensee fu la mia vicina di stanza: Lola. Ci incrociammo sul ballatoio, entrambe appena arrivate e desiderose di fare amicizia, e ci sorridemmo.
“Hallo, ich bin Pancrazia aus Turin.”
“Hallo, ich bin Lola aus Madrid.”
Da quel momento sotto i miei piedi si aprì la voragine della barriera linguistica. Lei aveva un vocabolario di un milione di parole, sparate alla velocità di 300 lemmi al secondo, il tutto condito da un fortissimo accento spagnolo. Io parlavo un tedesco elementare e scarno.
Lei capiva perfettamente ciò che dicevo io.
Io non capivo una mazza di ciò che diceva lei.
Ma l’inesorabile Lola non si lasciò minimamente intimidire dal mio sguardo perso e si esibì in un monologo fitto ed incomprensibile, che a distanza di anni ricordo ancora con terrore. Ignoro totalmente cosa mi abbia detto, potrebbe avermi confessato un passato da narcotrafficante, avermi proposto una cosa a tre con il suo fidanzato, o semplicemente resami vittima della più riuscita supercazzola della storia. Non lo so e, a questo punto, non lo voglio sapere.

Dopo cinque interminabili minuti, per cercare di chetare la logorroica iberica, le proposi una visita degli spazi comuni del piano: la cucina, i bagni e le docce.
Se i servizi erano accettabili, la cucina era al di là di ogni immaginazione. Sembrava uscita da uno di quei film sui sopravvissuti ai disastri atomici. La sporcizia di anni regnava sovrana in ogni angolo, vi erano piatti luridi accatastati su ogni superficie utile, un dito di unto spalmato su tutte le pareti e pentolame vario, con annessi resti di cibo risalenti al paleozoico, impilato davanti alla finestra.

E’ proprio in questi frangenti che si nota la forza delle persone e lo spirito di adattamento che le anima. Lola corse a chiudersi nella propria stanzetta, dove probabilmente versò calde lacrime. Io, che ho sempre avuto lo stomaco d’amianto e non mi schifo di nulla, corsi al supermercato. Mi era venuto un certo languorino.

Tornata allo studentato incrociai Marco, un ragazzo di Bolzano, che mi chiese: "Hai visto Simone?"
"Chi?"
"Simone, quello di Genova, abita qua al terzo piano"
"No, non so chi sia, perché?"
"E' arrivato dall'Italia in macchina, ha portato tutto: stoviglie, parmigiano, caffè. Io cenerò con lui."

Lo so cosa state pensando: che tristezza, giovani italiani all'estero che si comportano come gli emigranti degli anni '60 e si mettono in gruppo a mangiare spaghetti.
E la globalizzazione? L'Europa unita?
Avete perfettamente ragione, ma: "Mi posso autoinvitare?"
"Certo, più siamo meglio è"

La mia prima cena allo studentato Schlachtensee di Berlino consistette in un piatto di spaghetti burro e parmigiano, in compagnia di Marco di Bolzano, Simone di Genova e Anna di Venezia.
La globalizzazione poteva attendere.

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giovedì 15 marzo 2012

7. Due giorni da turista

Riavuti finalmente i miei effetti personali, riacquistai il sorriso, indossai un paio di scarpe comode e, per i due giorni successivi, vestii i panni della sfaccendata turista.

Furono quarantotto ore meravigliose, durante le quali iniziai a prendere confidenza con Berlino.
Mi mossi lentamente ed in maniera disordinata, seguendo l’ispirazione del momento, senza alcun piano prestabilito. Non avevo bisogno di rincorrere metropolitane od orari dei musei, potevo prendermela con comodo, avevo tutto il tempo del mondo, avevo sei mesi.

Cominciai con le due piazze più importanti della città, due luoghi che appartengono a mondi diversi, due sorelle che dall’aspetto e l’atmosfera non sembrano neanche lontane parenti.
Potsdamer Platz, rinata dalle proprie ceneri in seguito alla caduta del muro. Una cattedrale nel deserto, uno spicchio di Tokio in mezzo al nulla. Completamente disarmonica con il resto della città, ma per questo non priva di un suo peculiare e perverso fascino.
Ed Alexander Platz, cuore pulsante della vecchia Est. Dall’aria sdrucita e vissuta, con i punkabbestia ed i loro cani da una parte, e gli anonimi palazzoni di evidente stampo sovietico dall’altra. Sporca ma intrigante, come una donna che sta invecchiando male, ma che a tratti mostra ancora indizi del fascino di gioventù.

Passeggiai pigramente lungo l’arioso Unter den Linden, il viale sotto i tigli, andando incontro alla Porta di Brandeburgo. La classica immagine da cartolina, ma di cui si apprezza l’autentica bellezza solo dal vivo.
Costeggiai il Reichstag, il noto parlamento dalla cupola trasparente, fino a raggiungere Tier Garten, il parco principale della città.
Lì gli uccellini cinguettarono per me dolci melodie, gli scoiattoli mi sorrisero dagli alberi ed io, novella Biancaneve, zompettai felice con l’aria lieve ed idiota che ci si può permettere solo a mille chilometri da casa.

Nel bel mezzo della mia bucolica passeggiata notai delle macchie color rosa pallido stagliarsi in lontananza su di un prato. Calcai meglio gli occhiali sul naso e mi avvicinai incuriosita, fino a quando finalmente non compresi quale fosse il soggetto che stavo osservando con tanta attenzione.
Un tedesco nudo.
Anzi no, due tedeschi nudi.
Oh cielo, tre tedeschi nudi.
Insomma, un bel po’ di tedeschi nudi.
Avevo sempre desiderato conoscere il popolo germanico, ma non intendevo mica tanto intimamente e soprattutto non così in fretta. Senza un minimo di corteggiamento, una birra assieme, un cinema, una cenetta per rompere il ghiaccio.

In realtà scoprii quel pomeriggio, in maniera magari un po’ traumatica ma decisamente di grande effetto, che in Germania, in generale, e in quella dell’Est, in particolare, è molto diffuso il naturismo. Ed è socialmente accettato, anche se non credo legalmente riconosciuto, praticarlo con discrezione presso parchi e laghi cittadini.
Io, che ignoravo del tutto la faccenda, mi trovai a dover rapidamente scegliere fra tre opzioni: scappare scandalizzata urlando come una gallina isterica, rotolarmi a terra dal ridere per i rosei pipini esposti, od assumere l’aria indifferente, quasi annoiata, della donna di mondo abituata a tutto.
Ovviamente scelsi la terza via e fischiettando continuai tranquillamente la mia passeggiata.

Chissà quante altre sorprese mi avrebbe riservato questa città, ricca di storia, cultura e simpatici zuzzurelloni ignudi.

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mercoledì 14 marzo 2012

6. Wilkommen in Berlin!

Berlino mi accolse con una giornata splendida ed io, priva di bagagli, mi ci tuffai dentro leggera come una piuma. Prima presi l’autobus, con i biglietti a bordo come sulle corriere, e poi la metropolitana, con la tappezzeria fricchettona anni ‘70.

Arrivai alla fermata dell’ostello dove avrei soggiornato per i primi giorni e, ovviamente, sbagliai uscita.
Mi trovai così in un largo incrocio, praticamente deserto, senza punti di riferimento.
Smarrita e stanca, presi a fissare intensamente il foglietto dove avevo scritto l’indirizzo aspettando che, per magia, si materializzasse qualche aiuto. E così fu.
Un vecchietto piccolo piccolo si avvicinò, bofonchiò qualcosa, mi strappò il biglietto dalle mani e cominciò a camminare. E io dietro a lui.
Dopo 200 metri eravamo all’incrocio giusto, lui mi ridiede il foglietto e senza dire una parola se ne andò.
Potrei anche sbagliarmi, sarà stata colpa del sole di un settembre tedesco sorprendentemente caldo, o forse sarà dipeso da tutte le emozioni che avevo vissuto fino a quel momento, ma giurerei di aver visto spuntare dal fondo della giacchetta dell’uomo due grandi ali bianche.

Dopo questo magico incontro mi era tornato il buon umore ed entrai nell’ostello nuovamente carica, pronta a prendere possesso del posto che, scrupolosamente, avevo prenotato via fax qualche giorno prima.

“We lost your fax.”

Non ci potevo credere. Abbandonata ogni parvenza di civiltà, aggredii verbalmente il portiere dietro il bancone: la precisa compagnia aerea, della precisa Germania si era persa i miei bagagli e lui aveva smarrito la mia solerte prenotazione. Il suo paese era un bluff: per secoli ci avevano fatto credere di marciare spediti e ordinati come soldatini ma la loro era solo una facciata. Disorganizzati, pasticcioni, ed anche usurpatori di rossetti altrui. Così mi si rivelarono improvvisamente i tedeschi. Brutta gente. Brutta brutta gente.

La vittima della mia piazzata non si risentì affatto. E perché avrebbe dovuto? Era turco.
Dopo aver atteso pazientemente che io concludessi la mia scenata isterica, mi dedicò lo stesso sorriso indulgente del ragazzo della Lufthansa e mi offrì di occupare una stanza tutta per me, per risarcirmi dei disagi che avevo vissuto fino a quel momento.
Lì per lì pensai che fosse molto gentile, col senno di poi credo che mi abbia messo da sola per il legittimo sospetto che fossi una psicopatica violenta e pericolosa, pronta a sterminare tutti gli altri ospiti.

Arrivata nella mia camera mi abbandonai sul letto, dove persi i sensi per quasi due ore. Al risveglio, rinfrancata nel corpo e nello spirito, chiamai il numero verde ed una signorina gentile m’informò: “I suoi bagagli sono atterrati dieci minuti fa. Glieli stanno recapitando in questo momento. Wilkommen in Berlin!”

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martedì 13 marzo 2012

5. Un pezzo per volta

L'aereo non si era schiantato ed io ero finalmente giunta a casa: la mia vita era perfetta. Quella dei miei vicini di volo forse un poco meno, ma non era affar mio.

Al ritiro bagagli mi misi buona buona in un angolino ad aspettare, con un sorriso ebete stampato in faccia e la mente impegnata a vagare tra sogni inarrivabili e piccoli progetti concreti di erasmica quotidianità. Dopo venti minuti, risvegliatami dalla mia trance di beatitudine, mi accorsi che tutti gli altri passeggeri avevano ritirato le loro borse e se ne stavano andando. Tutti tranne me.
Io rimanevo da sola nel mio angolino con il nastro trasportatore che continuava a girare. Vuoto.

Avevo stipato tutta la mia vita in una valigia grande quanto un baule e uno zaino da alpinismo degno di un'arrampicata sul K2, e ora mi rimanevano solo una vezzosa borsetta ed un capiente beauty case. Sarei forse dovuta sopravvivere sei mesi in Germania solo con un'agenda ed una confezione maxi di latte detergente? E chi ero, MacGyver?
Volevo morire.

Superata la tentazione di sdraiarmi a terra in posizione fetale e piangere, feci appello al mio buon senso e mi recai all’ufficio della Lufthansa.
Ad attendermi allo sportello trovai un impiegato giovane, teutonico e decisamente belloccio.
“Lufthansa lost my luggage!”(*), gli dissi ad occhi sbarrati e boccuccia tremolante.
Il bel impiegato mi dedicò un sorriso indulgente e cercò di rassicurarmi: la sua ditta non aveva perso i miei bagagli. La sua ditta non perdeva i bagagli. La sua ditta, tutt'al più, ne smarriva momentaneamente la collocazione spazio temporale. Ma sarebbe bastato che gli dessi tutti i dati e lui avrebbe immediatamente localizzato le mie valigie, meglio di un segugio.
Io, nuovamente fiduciosa, gli allungai il mio biglietto e attesi.

Il belloccio, sicuro e sorridente, iniziò a cercare sul proprio terminale. Ma più cercava e più il sorriso gli si faceva meno brillante, lo sguardo meno fascinoso, l'atteggiamento meno testosteronicamente seduttivo. Dopo due minuti sollevò gli occhi, atteggiò il viso ad una smorfia tra il contrito e lo stupito, ed affermò sconsolato: “Lufthansa lost your luggage”.
Ecco. Appunto.
Io calcolai rapidamente quanto mi sarebbe costato riacquistare tutto il necessario. Dalle mutande alle scarpe. Dai maglioni ai pigiamoni felpati. La borsa di studio mi faceva già "ciao ciao" con la manina ed io prevedevo 6 aridi mesi a pasteggiare con pane e cipolla.

L'impiegato, leggendo sul mio volto la disperazione, cercò di rassicurarmi, mi diede il numero verde da chiamare per avere notizie circa le mie borse, e mi congedò con un sorriso molto più forzato di quello con cui mi aveva accolta.

Lasciai l'ufficio della Lufthansa strascinando i piedi e mi diressi verso i bagni, poiché l'unica parte di me rimasta indifferente a tanto dramma sembrava essere la mia esuberante vescica.
Quando uscii per lavarmi le mani, trovai davanti allo specchio una valchiria in tailleur. Ella vide il mio viso sconsolato e solerte mi chiese quale fosse il problema. Io, sorpresa da tanta disponibilità, le feci un resoconto dettagliato della tragedia che mi aveva appena colpita, con particolare riferimento alla storia dell'agenda, il bottiglione di latte detergente, e un futuro a pane e cipolla.
La sconosciuta mi ascoltò, mi consolò, si profuse in incoraggiamenti e pacche sulle spalle, tutto ciò guardando con occhi avidi il mio capiente beauty case. Alla fine, satura delle mie lagne, si decise a fare quello per cui aveva finto tanta disinteressata partecipazione.
"Can I borrow your lipstick?"(**), mi chiese sorridente.
Io, non volendo fare la figura della solita italiana provinciale, annuii e rimasi ad osservare mentre quella sfacciata si spalmava chilate del mio "Rosso passione crucca" sulle sue sconosciute teutoniche labbra.
Finito il restauro, dopo uno schiocco soddisfatto davanti allo specchio, mi augurò buona fortuna, mi salutò, e scomparve oltre la porta lasciandomi con una vescica vuota ed un rossetto mezzo usato.

Non so cosa avreste fatto voi al mio posto, io feci l'unica cosa che mi parve sensata: raccolsi i miei pochi averi, buttai il rossetto nell'immondizia e mi diressi di corsa verso l'uscita dell'aeroporto.
Ero là da solo un'ora e già avevo dovuto rinunciare, volontariamente o meno, a due valigie ed un fondamentale accessorio di make up. Preferii affrettarmi, prima che una banda di hostess pazze cercasse di privarmi anche di un rene o due.

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Per i non anglofoni:
(*)"Lufthansa ha perso il mio bagaglio"
(**) "Che me lo presti un rossetto?"

venerdì 9 marzo 2012

4. Berlin, ich liebe dich!

Un sabato mattina di fine settembre cominciò finalmente il mio viaggio.
Io non ho mai amato prendere l'aereo, men che meno da sola, quindi l’eccitazione della partenza lasciò presto il posto all’ansia e trascorsi la breve durata del volo incollata al sedile, legata come un salame, rigida come un baccalà, con gli occhi fissi al poggiatesta di fronte a me, e le unghie piantate saldamente ai braccioli.

Quando il comandante annunciò che stavamo per atterrare spostai lo sguardo verso il finestrino e a quel punto la vidi. Berlino stava là. Spalmata per km. Enorme. Una città costretta per molti anni entro confini innaturali e che ora si allargava come un uovo rotto in una padella. Plof. Il rosso al centro e l'albume a coprire tutto lo spazio disponibile intorno.

Vidi questo enorme uovo al tegamino e pensai solo: "Casa. Sono a casa."
Per curare un cuore ferito non c’è niente di meglio che un nuovo amore. Un amore sincero che ti lasci i tuoi tempi e non ti chieda nulla in cambio. Io avevo trovato il mio. Berlino. La verde, immensa, meravigliosa Berlin.
E pensare che a me le uova non sono neanche mai piaciute.

Piena di commozione e con gli occhi lucidi, cercai istintivamente lo sguardo dei miei vicini, per poter condividere almeno con loro tutto l'amore che sentivo esplodere dentro di me in quel momento. Alla mia destra sedeva un ragazzo molto giovane, con un piercing al naso e una testa piena di ricci. Alla sinistra, invece, un signore maturo con un paio di baffoni importanti. Anche i loro occhi erano lucidi. Ne fui sorpresa. Chi l'avrebbe mai detto che i tedeschi, notoriamente formali e riservati, potessero essere capaci di tanta spudorata empatia. Chissà quanti altri pregiudizi avrei visto sfatati nei mesi che mi attendevano. Chissà quante altre incredibili sorprese avrebbero caratterizzato il mio Erasmus.

Sopraffatta dalla forza delle mie emozioni, continuai a passare lo sguardo con affetto e sincera gratitudine a sinistra e poi a destra. A destra e poi a sinistra. Ma più li osservavo, più mi sembrava di leggere qualcosa di ostile nel fondo di quegli occhi sconosciuti. Un messaggio inespresso. Quasi una rabbia repressa.
L'uomo baffuto finalmente si decise a farmi un cenno. Io abbassai il capo e con orrore capì.
Vidi le mie mani. Vidi i loro avambracci. Vidi i segni lasciati dalle mie unghie.

Ops!
Sarebbe potuto accadere a chiunque. O no?

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giovedì 8 marzo 2012

3. La valigia come forma d'arte

Chiunque abbia fatto l’Erasmus lo sa: fare stare nei canonici 20 kg di bagagli lo stretto indispensabile per sei mesi all’estero è un’impresa che richiede nervi saldi, creatività, elasticità mentale ed una certa dose di lucida follia.

In primo luogo bisogna selezionare. Decidere cosa sia davvero utile e insostituibile e cosa no. Le scarpe preferite? Impossibile rinunciarvi. La tinta per rimanere fintamente e sfacciatamente bionda? Più importante delle aspirine. Il top da panterona? Mai senza. La moca e il parmigiano? Certo. Sarà patetico ma ognuno ha pur diritto alle proprie perversioni.
Il secondo passo consiste nell’armarsi di santa pazienza e procedere al riempimento della valigia con la stessa precisione che richiederebbe un’opera ingegneristica. Nulla può essere lasciato al caso, tutto deve essere incastrato al millimetro e pesato fino all’ultimo etto: bisogna piegare ed arrotolare, mettere i capi pesanti sotto e quelli più leggeri sopra, infilare i calzini dentro le scarpe e disporre ciò che avanza come un florilegio ad ornare il tutto, e soprattutto ad occupare gli spazi morti.

E quando alla fine, inevitabilmente, nonostante le rinunce e i calcoli, qualcosa sembra destinato a non trovare posto, rimane l’ultima possibilità, la risorsa estrema, l’uscita d’emergenza. Lo si indossa durante il viaggio.
Il piumino a settembre? Quattro paia di mutande? Bracciali, collanine ed anelli? Sì. Sì. Sì.
Fino ad assomigliare all’omino Michelin bardato come la Madonna di Pompei? Certo, perché no?
Se si ha l’opportunità di vivere un’avventura fantastica, come sei mesi all’estero, si deve pur essere disposti a rinunciare a qualcosa: al proprio senso del ridicolo, per esempio. Io il mio lo lasciai al check in dell’aeroporto di Caselle e non sono mai tornata a ritirarlo.

Cari futuri Erasmus che state leggendo queste memorie, non allarmatevi inutilmente. Per quanto le valigie possano sembrare piene, per quanto appaiano pesanti come macigni, per quanto ci si possa sentire ridicoli, bisogna star sereni e non preoccuparsi.
Al ritorno sarà peggio.


N.d.A: mi dispiace per chi di voi l'ha già letto. Ma questo capitolo, secondo me, "funzionava" già nella versione originale e quindi è stato modificato solo impercettibilmente.

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mercoledì 7 marzo 2012

2. La Nuova Me

La partenza venne fissata per fine Settembre ed io trascorsi i mesi che rimanevano a preparare documenti, fisico, capelli e guardaroba. Furono mesi molto intensi.

Per quanto riguarda la parte prettamente burocratica feci fiduciosamente riferimento al mio coordinatore Erasmus. Questi mi affidò ad un’assistente, che mi indirizzò ad uno specializzando, che mi rifilò ad una segretaria, che mi sbolognò ad un inserviente che, passandomi il mocio per i pavimenti, mi liquidò con un: “Non parlo tedesco. Dovrai arrangiarti da sola. Ma mi raccomando non farci fare brutte figure.”
“...”
“E ancora una cosa, quasi dimenticavo”
“Si?”
“Quando hai finito con i corridoi pulisci pure i cessi”

Io, di fronte a tanta disponibilità, mi sentii al sicuro come un pulcino avvolto amorevolmente nella bambagia, adagiato in un cestino ornato da pizzi e merletti, e delicatamente depositato in mezzo alla carreggiata dello svincolo autostradale di Roncobilaccio.
Sorprendentemente, però, non venni investita dal primo TIR di passaggio, ma fui portata in salvo dalla proverbiale organizzazione teutonica. Tramite un fitto carteggio con studentato, università e facoltà berlinesi, nel giro di poco tempo mi assicurai un posto letto, organizzai il piano didattico per il semestre, e mi venne persino assegnato un Buddy, uno studente tedesco a cui fare riferimento per qualsiasi dubbio o perplessità.

Risolte le pratiche necessarie ma noiose, fui finalmente libera di occuparmi della parte più frivola e divertente dei preparativi.
Qualsiasi ragazza, prima di partire per le classiche due settimane di ferie, dedica molto tempo al fisico, ai capelli e soprattutto al guardaroba. Se si moltiplica il tutto per 1000, si ottiene una stima approssimativa del tempo, la passione e le energie che profusi io per la preparazione di 6, dico 6, ripeto 6, mesi in terra straniera.
L’obiettivo era essere bellissima per far schiattare d’invidia quel fetente del mio ex. Biondissima per mimetizzarmi con la popolazione indigena. E dotata di abiti caldi e femminili per evitare l’assideramento, ma con una certa classe.

A Settembre, dopo mesi di autoanalisi e shopping terapeutico, potei finalmente esibire un fisico tonico e perfetto, che ricordo ancora con nostalgia. Una chioma artificiosamente schiarita, che ricordo con orrore. Ed ovviamente un nuovo guardaroba con cui avrei potuto affrontare anche l’inverno artico.

Era giunto il tempo. Rinfrancata nel corpo e nello spirito, vide la luce e spiccò il volo Lei: La Nuova Me.

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martedì 6 marzo 2012

1. Boris, mein Schatz

Ero stata lasciata a Novembre del 1999 e consegnai la domanda per la borsa di studio il Gennaio del 2000.
Un pomeriggio di primavera ricevetti la telefonata di un’amica: “Sono uscite le graduatorie, complimenti, vai in Germania!”

Io lo so ciò che vi state chiedendo: Germania? E perché? La gente di solito va a fare l’Erasmus in Spagna, in Francia o magari in Inghilterra. Perché la Germania?
Come perché? È ovvio: perché sono una pazza piena di disturbi e lo sono sempre stata.

Quand’ero ancora una ragazzina col monociglio che frequentava le medie, venni folgorata da un’angelica visione: Boris Becker(*) che giocava a tennis. Il sedere di Boris Becker che vinceva l’Australian Open avvolto in un paio di stretti calzoncini. Gli occhioni blu di Boris Becker che mi fissavano oltre lo schermo facendomi tacite promesse di giorni d’amore e passione.
Io avevo solo dodici anni e quel giorno il mio cuore si aprì ad un sentimento nuovo: l’adorazione senza se e senza ma. Questo mio rapporto a senso unico si protrasse, tra alti e bassi, per anni. Molti anni. Troppi anni per non definire questa mia cotta adolescenziale una patologica ossessione.
Boris frequentava algide modelle? Ed io simulavo indifferenza. Boris si fidanzava con un’attrice brava e intelligente? Ed io mi fingevo orgogliosa del mio pupillo e dei suoi gusti nient’affatto scontati o volgari. Boris si sposava con suddetta sgnacchera? Ed io mi piantavo sul viso un paretico sorriso, mentre in realtà dentro di me divampava il fuoco della folle gelosia.

Questo mio amore, oltre a procurarmi il continuo dileggio di chicchessia, risvegliò in me anche una forte curiosità verso la cultura tedesca. Ad esempio per l’esame di terza media feci un lavoro interdisciplinare che partiva da Goethe, attraversava 50 anni di storia Europea e finiva con un doppio tuffo carpiato nelle torbiere della Foresta Nera. Una roba tutta scritta a macchina, tac-tac-tac, con i calli agli indici e il bianchetto sniffato nei momenti di sconforto.
Poi, crescendo, in vacanza mi applicai a rimorchiare solo ragazzi tedeschi perché, non potendo avere l’originale, mi concentravo su pallidi surrogati. Surrogati a cui non risparmiavo i particolari della mia crucca fissazione. Surrogati che scappavano terrorizzati dall'italiana squilibrata.
Ed, inoltre, nella mia cameretta conservavo una vera e propria collezione di vocabolari tascabili tedeschi e mini grammatiche. Ero troppo pigra per imparare la lingua come si deve, ma imbattibile sulle frasi idiomatiche e gli inutili modi di dire.
Insomma: una pazza fatta e finita.

Ovviamente con gli anni questa cosa andò un poco stemperandosi, non che certe passioni uno riesca mai a spegnerle completamente, ma crescendo di solito ci si fa una vita e si acquista consapevolezza delle proprie follie, e di come sia saggio reprimerle o almeno nasconderle se non si vuole finire alla neuro.

Fatto sta che, nel momento del bisogno, nel momento in cui la mia giovane vita sembrava perdere i pezzi, io non ebbi alcun dubbio e scelsi la mia destinazione: la Germania. Non per trovare Becker. Non per trovare marito. Ma per ritrovare me stessa.
E Germania fu. Anzi in realtà fu molto meglio. Fu Berlino.

(*)Formidabile tennista tedesco tra gli anni '80 e '90. Non è mai stato bello ma a quei tempi aveva il suo perché. Attualmente è il classico ex atleta bolso e con pochi argomenti di conversazione, ma ciò non m'impedisce di seguirlo comunque su twitter. Ovviamente.

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lunedì 5 marzo 2012

Introduzione

"Non sono sicuro che tu sia la donna della mia vita. Prendiamoci una pausa di riflessione."
Furono queste le parole con cui cominciò la mia avventura Erasmus.

Si può decidere di trascorrere un semestre all’estero per svariati motivi.
C’è chi è alla ricerca di un’esperienza umanamente stimolante, che si traduca nell’incontro con giovani provenienti da paesi e culture diverse. Giovani con i quali confrontarsi sui grandi temi della vita, stringere amicizie destinate a durare per sempre e, perché no, accoppiarsi come gioiosi ricci in calore.
C’è chi desidera vivere finalmente come un adulto, gravato da nuove responsabilità ma appagato dalle soddisfazioni che solo l’indipendenza è in grado di dare. Ad esempio, occuparsi del bucato, far quadrare i conti, andare a dormire all’alba, svegliarsi poco prima del tramonto, nutrirsi solo di cibo spazzatura, e scoprire quanto alcol si sia in grado di assumere prima di perdere i sensi.
C’è chi dice di voler arricchire il proprio curriculum accademico, ma probabilmente spera solo di superare presso qualche ateneo straniero gli esami che in patria risultano più ostici. Diventando così la dimostrazione vivente di quelle leggende metropolitane che da sempre avvolgono il mito dell’Erasmus: “Un amico della ragazza di mio cugino è stato sei mesi in Islanda ed ha dato 10 esami”; “Il fratello del fidanzato della cassiera del supermercato si è trasferito nel Lichtenstein, ha finito l’università, ha trovato un lavoro meraviglioso ed ha sposato una modella”; “la nipote della vicina di casa della mia prozia Ninuzza è andata sul cucuzzolo dello scoglio della Rocca di Gibilterra, si è laureata in tre mesi con 110 e lode, il bacio accademico, la dignità di stampa, ed ora vive in una villa sulla spiaggia e ha Bill Gates come maggiordomo”.

Infine ci sono loro, gli eterni romantici, quelli che scappano via dal proprio paese perché gli è stato spezzato il cuore, perché sono stati traditi o lasciati, perché amano da anni senza essere riamati.
Costoro non cercano neanche di ammantare le proprie motivazioni con una parvenza di rispettabilità umana, accademica o sociale, ma ammettono candidamente la cruda verità. La loro è una fuga.

Io, ovviamente, appartenevo a quest’ultima categoria.
L’uomo della mia vita, il mio sole, la mia ragion d’essere, mi aveva improvvisamente lasciata per telefono ed io, invece di cancellare immediatamente dalla mia testa e dalla mia esistenza uno che non si era neanche preso la briga di alzare il culo dal divano e venirmi a mollare di persona, mi ero ridotta ad uno straccio.
Ciondolavo per casa in pigiama con i capelli arruffati e gli occhi cisposi, ammorbavo chiunque avesse la sventura di darmi retta con il resoconto dettagliato delle mie sofferenze e, naturalmente, versavo copiose lacrime.

L’unica soluzione per risollevare una situazione così triste, abbrutente e patetica era fare le valigie e partire.

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giovedì 1 marzo 2012

Tenetevi pronti!

Si comicia da lunedì 5 marzo.
Le vostre vite non saranno più le stesse.
E neanche la mia.

Pancrazia in Berlin - Il Ritorno

Poche righe per avvertire i lettori distratti e i passanti ignari che dall'altra parte, su Radio Cole , sto raccontando il mio ultimo vi...