mercoledì 12 dicembre 2012

58. Danke!

L'ultimo giorno a Berlino, Massimo mi aiutò sedendosi sulla valigia. Valigia che altrimenti non sarei stata assolutamente in grado di chiudere.
L'ultimo giorno a Berlino, Marije mi fece "a sorpresa" il bucato. Costringendomi, l'olandese stolta, a chiudere il tutto ancora bagnato in una busta di plastica ed infilarlo a forza nel mio zaino d'alpinismo.
L'ultimo giorno a Berlino, Elmar mi portò a mangiare il Baklava promettendomi, tra un boccone e l'altro, che sarebbe presto venuto a trovarmi in Italia. Promessa che mantenne. E mantenne. E mantenne. Per quattro complicati ma fondamentali anni.

Io partii la mattina dopo con un sovraccarico di 6 kg nel bagaglio. Sovraccarico che mi venne abbonato da una sorprendentemente generosa hostess teutonica.
Io partii piangendo calde lacrime per la mia amata Berlino.
Io partii promettendomi che un giorno sarei tornata. Promessa che mantenni. E mantenni. E mantenni. Per tre anni e poi basta. E che ora sento di poter finalmente rinnovare.
Aspettami Berlino: tornerò. Il 2013 sarà l'anno giusto.

Partii ringraziando Ivan che mi aveva spezzato il cuore ma anche regalato, inconsapevolmente, l'esperienza più bella della mia vita.
Partii ringraziando la mia amica Erika da cui era nata l'idea di far domanda per l'Erasmus.
Partii ringraziando il destino che mi aveva fatto incontrare tante persone meravigliose. Persone che ringrazio adesso per esserci state allora e, in un certo senso, esserci sempre. Nel mio cuore, nella mia mente, nei miei ricordi, nella mia vita.

Ed ora ringrazio voi.
Voi che avete cominciato a leggere questa storia su Radio Cole e avete continuato a farlo anche qui.
Voi che, invece, mi avete conosciuta e seguita solo su queste pagine.
Voi che avete riso, pianto, e fatto il tifo.
Voi a cui ho fatto venir voglia di partire.
Voi che l'avete fatta tornare a me.
Voi che leggerete queste parole oggi, domani o fra dieci anni.

A te, che mi stai leggendo in questo momento, dico grazie. Danke!

Fine.

martedì 11 dicembre 2012

57. Arigatou

LaMari tornò in Italia per prima, seguita poi da tutte le altre Comari.
Ci fu chi organizzò una notte bianca in giro per locali, chi preparò il bagaglio a mano più fuori norma nella storia dell'aviazione civile, e chi lasciò biglietti e regali per tutte.
Ma la cosa più importante fu che ognuna tracciò un segno indelebile nel cuore delle altre.

Tutte tornarono in Italia prima di me che, avendo a disposizione un appartamento fino a metà aprile e un fidanzato nuovo di zecca, rimandai il più possibile l'indesiderato rimpatrio.
Ma, dopo aver visitato la bella Dresda e aver messo piede in tutti gli improbabili locali alternativi berlinesi, anch'io mi arresi di fronte all'ineluttabilità del destino cinico e baro, e cominciai a prepararmi alla partenza.

Prima di litigare con le valigie e cercare di infilare tutto il mio mondo in spazi tanto angusti, mi rimaneva solo un'ultima cosa da fare. E la feci.

Per l'ultima volta riattraversai la città da parte a parte. Presi il tram, la metro e l'autobus. Mi orientai tra le mille stradine del parco e, finalmente, rientrai nell'Haus 17 di Schlachtensee.
Non avevo più messo piede in quell'edificio da inizio gennaio.
L'avevo lasciato immerso nella neve. Lo ritrovai illuminato da un pallido sole del Nord.

Stringendo tra le mani una bottiglia di vino rosso piemontese, salii un paio di piani, svoltai nel corridoio a sinistra e mi fermai davanti alla terza porta.
Bussai e attesi.
Nessuno rispose.

Fumiki non era in casa.
Avevo fatto tutta quella strada per niente.
Avevo fatto tutta quella strada per ringraziarlo.
Ringraziarlo della sua amicizia. Della sua compagnia. Delle chiacchiere e delle riflessioni.
Ringraziarlo nonostante avesse scelto di non far parte della mia vita. Nonostante non mi fosse mai venuto a trovare nel nuovo appartamento. Nonostante avesse lasciato che l'orgoglio fosse più forte dell'affetto.
Avevo fatto tutta quella strada per salutarlo. Perché, pur non vedendoci ormai da tempo, lasciare la Germania senza dirglielo mi sembrava un tradimento, uno sgarbo, un gesto imperdonabile. Più imperdonabile ancora del non essere mai tornata a trovarlo in tutti quei mesi.

Bussai ancora.
Appoggiai l'orecchio alla porta per cogliere dei rumori all'interno.
Nulla.
Mi arresi e tornai indietro.

Ripercorsi il corridoio e le scale ma, prima di uscire, qualcosa attirò la mia attenzione.
Sulla cassetta delle lettere era stato appiccicato un biglietto ricoperto da una scrittura minuta, serrata e precisa.
Fumiki si era trasferito e aveva lasciato indicazione su dove recapitargli la posta.

Presi nota e mi rimisi in cammino.
Mezz'ora dopo mi ritrovai davanti ad un'altra porta.
Bussai e questa volta l'attesa non fu vana.

Venne ad aprirmi uno dei tre studenti che abitava in quel miniappartamento.
"C'è Fumiki?", gli chiesi
"No", mi rispose, "tornerà stasera".

Non potevo aspettarlo, avevo ancora un milione di cose da fare prima di prendere l'aereo il giorno successivo. Quindi mi sedetti a terra, rovistai nella borsa, ne tirai fuori una penna, e mi misi a scrivere lungo il bordo dell'etichetta della bottiglia di vino.

Scrissi della mia riconoscenza, della mia partenza e del mio dispiacere di non averlo più rivisto.
Scrissi il mio indirizzo email ed il mio nome.
Scrissi e poi consegnai la bottiglia dicendo solo: "Mi raccomando, è importante".

Il dono quella sera venne consegnato nelle giuste mani.
L'indirizzo utilizzato nei mesi a venire per un fitto carteggio telematico.
Il vino tenuto come ricordo, o almeno così mi è stato assicurato.

Il trascorrere del tempo poi ci allontanò, ma non per sempre.
Certe persone sono destinate a far parte della nostra vita e della nostra storia.
Io della sua. Lui della mia.

Arigatou.
Grazie.

Continua...

martedì 4 dicembre 2012

56. Guten Appetit!

Come direbbe LaBionda: "Quanto si mangia bene in Italia non si mangia da nessun'altra parte".
E, forse, questa volta avrebbe ragione.
Nel nostro paese la cultura gastronomica ha radici profonde e diffuse.
Forti di consolidate tradizioni storiche e di una felicissima posizione geografica, noi italiani produciamo e consumiamo buon cibo e buon vino.

L'Italia se ne sta là. Spalmata sul Mediterraneo e tenuta per i capelli dalle Alpi. Godendo, senza merito alcuno, di sole, mare, montagne e laghi.
Da noi tutto può essere coltivato e tutto può essere allevato. Con il risultato che per noi la cucina è un'enorme ricchezza, diversa ma sempre preziosa, da Nord a Sud, da regione a regione, da comune a comune.

Anche ai tedeschi piace mangiare. Ma loro, poveretti, stanno in Germania. E cosa cresce in Germania? Cavoli e patate. Patate e cavoli.
La cucina tedesca è più povera della nostra, esattamente come quella di tre quarti d'Europa. Ciò è dovuto ad una sorta di maledizione divina che fornisce a noi e a tutti i suddici del continente millemila ingredienti disponibili, e a loro e a tutti i nordici un'esigua varietà.

I germanici, però, hanno deciso di trarre vantaggio dalla globalizzazione e dalla loro celeberrima passione per i viaggi. Così hanno cercato d'innestare le tradizioni culinarie straniere sulla loro cultura, fin nell'interno delle loro case.
Mi spiego meglio. Se vado da mia madre e le dico "Tzatziki!", lei tutt'al più mi risponde "Salute!"
Ma, se lo vado a dire ad una casalinga tedesca, sono molto alte le probabilità che questa ne tiri fuori dal frigo una vaschetta preconfezionata o che, addirittura, me ne prepari con le sue crucche mani una scodellona formato famiglia.
I supermercati tedeschi sono pieni di prodotti stranieri, entrati ormai a far parte dei loro pranzi e delle loro cene.
E tra le cucine di tutto il mondo, un po' per merito e un po' per la forte immigrazione, quella italiana occupa da sempre un posto speciale negli stomaci e nei cuori germanici. Posto che, però, non impedisce che, ogni tanto, questi stolti nordici non ne facciano inconsapevole e involontario(?) scempio.

Come quella volta che LaMari, in occasione del suo imminente ritorno in patria, organizzò un pranzo per il gruppo più stretto di amici. Pranzo a base di deliziose lasagne, preparate dalle sue amorevoli manine.
Noi italiani, che un profumo così casalingo e materno non lo sentivamo da mesi, ci sciogliemmo in una pozza di besciamellica nostalgia.
I nordici, tedeschi in testa, si esaltarono in una nuvola di scoppiettante entusiasmo.
Eravamo tutti felici: noi, loro e la cuoca in partenza.

Tutti felici fino a quando Reykjavík, il fidanzato de LaMari dal nome impronunciabile, ebbe la malsana idea di chiedere il ketchup.
Il ketchup.
Il ketchup.
Scusatemi, ho bisogno di dirlo un'altra volta, il ketchup!

Il ketchup per affogarci le lasagne, per uccidere il sapore, per eliminare la delicatezza.
Il ketchup per fare del male alla pasta, a noi, e al mondo tutto!

Dalla parte italica della tavola partì una vera e propria rivolta:
"Eretico!", urlò la folla inseguendo lo stolto con forconi e fiaccole.
E la sciagurata scena si concluse con la defenestrazione della rossa salsa, prima, e del biondo crucco, dopo.

Noi italiani possiamo perdonare quasi tutto.
Quasi.

Continua...

mercoledì 28 novembre 2012

55. L'Erasmus dà. L'Erasmus toglie.

Un'altra tappa imperdibile di ogni Erasmus che si rispetti è la visita da parte degli amici.
C'è chi ha ricordi meravigliosi di quei momenti.
C'è chi, come me, NO.

Verso fine febbraio, BellaeSfortunata e LaBionda, mi annunciarono il loro imminente arrivo.
Per telefono mi chiesero:
"Fa molto freddo?"
Ed io, nel bel mezzo di uno degli inverni berlinesi più caldi della storia, non potei che rispondere loro "il clima è mite. Da una settimana c'è sempre il sole: state tranquille!"

Nel momento in cui il loro aereo toccò terra tutti gli elementi naturali si scatenarono. I burloni Dei Germanici iniziarono a complottare, ed ebbe inizio il marzo teutonico più freddo e piovoso di tutti i tempi.
"Ma che ci stavi a prendere in giro?", mi chiesero le mie zuppe amiche.
"Fino a ieri il tempo era bello"
"Taci!"
"Sul serio!"
"L'Erasmus t'ha fatto male!"
Il loro breve soggiorno berlinese e la nostra breve convivenza non sarebbe potuta cominciare sotto auspici peggiori.

Con loro, l'estate precedente, avevo condiviso una divertente e faticosa vacanza in tenda tra Mikonos e Paros. Con loro, pochi mesi prima, avevo affrontato quel famoso, gelido e folle Capodanno. Ma niente riuscì a mettere alla prova la nostra amicizia come quei pochi giorni assieme a Berlino.

Sono anche disposta a prendermi la mia parte di colpa: io, ormai, ero in Germania da tanti mesi, mi ero costruita il mio nido ed ero stata arricchita da un milione di esperienze diverse. E, diciamo la verità, forse per questo me la tiravo pure un poco.
Ma loro, soprattutto LaBionda, furono in grado di toccare vette d'insopportabilità mai raggiunte fino a quel momento.

Queste due ragazze, giovani e sveglie, avevano riempito i loro zainetti ed erano venute a Berlino. Io mi aspettavo che volessero divertirsi, vedere bei posti, e conoscere gente nuova. Ma invece.
BellaeSfortunata aveva la vitalità di un bradipo anziano, era sempre stanca, e non voleva mai andare da nessuna parte.
LaBionda, al contrario, era iperattiva, fotografava qualsiasi cosa ma criticava tutto. Le sue frasi must della vacanza furono: "Carino, ma i nostri monumenti sono più belli!"
"Non male, ma l'Italia è un'altra cosa!"
"Sì, vabbè, ma vuoi mettere quanto ci vestiamo meglio noi?"
E così via, con una serie di frasi fatte che manco le mie nonne in stereo sarebbero riuscite a produrne in così gran quantità.

Ma se di giorno, in giro per la città, nascondevo la mia irritazione dietro un paretico sorriso. La sera, in giro per feste e locali, ringhiavo apertamente meditando l'eliminazione fisica delle mie due adorabili amiche. Queste, dimenticando le regole base della buona creanza e dimostrando assoluta mancanza di curiosità intellettuale oltre che apertura mentale, si ostinavano a parlare solo italiano limitando le proprie interazioni a connazionali e iberici.
"Ma perché non provate con l'inglese? C'è tanta gente interessante qua da conoscere", cercavo di spronarle.
"No, io mi vergogno. E se sbaglio la coniugazione di un verbo?", rispondeva una.
"No, io non c'ho proprio voglia di far fatica", aggiungeva l'altra.

Non è bello da dirsi ma, quando se ne andarono, mi sentii sgravata di un peso.
Al mio ritorno in patria riallacciammo le nostre amicizie, ma niente fu mai più come prima.

L'Erasmus, come tutte le esperienze forti ed intense, ti cambia. Che sia in meglio o in peggio, dipende dai punti di vista.
Il mio è evidente.

Quei sei mesi mi portarono sentimenti, consapevolezza ed un enorme bagaglio di esperienza.
Si può fare un passo avanti e 1000 passi indietro, ma certi ricordi possono aiutarti a continuare comunque a camminare.

Continua...

mercoledì 21 novembre 2012

54. La febbre del sabato sera

Io dell'Erasmus non mi sono fatta mancare proprio niente. Dalle cose più frivole e superficiali: come il cambio di look e il piercing all'ombelico. Alle cose davvero importanti: come l'amicizia e l'amore.

Io dell'Erasmus non mi sono fatta mancare proprio niente. Ho persino vissuto l'esperienza del febbrone da cavallo in terra straniera.

Una notte andai a dormire in perfetta forma per poi svegliarmi l'indomani con due tonsille grosse come palline da tennis, la fronte talmente calda da cuocerci sopra un paio di uova al tegamino, e la brillantezza mentale di un novantenne sedato.

Con le poche forze ancora in mio possesso mi trascinai fino all'Apotheke più vicina. E là potei stringere tra le mie avide e calde mani la mia salvezza, la mia migliore amica, il mio unico appiglio così familiare e globalizzato: l'aspirina effervescente.
Sempre sia lodata!

Tornata a casa indossai nuovamente pigiama e calzettoni d'ordinanza, attendendo che i germi teutonici facessero scempio del mio fragile corpo.

In momenti così ci si sente soli e si torna bambini. Ci si vorrebbe accucciare tra le rigide e fastidiose lenzuola di flanella della nonna. Si vorrebbero le cure del medico che veniva a visitarci a casa, e scriveva le ricette degli antibiotici con la nostra penna d'Iridella. Si vorrebbero le caramelle della farmacia sottocasa.

A me, tutto sommato, sarebbe bastata la mamma.

Ma anche in quel caso l'Erasmus riuscì a sorprendermi.
Murata sotto il piumone, ebbi la fortuna di ricevere il sostegno morale e pratico di molti dei miei amici berlinesi. Ebbi il privilegio di godere della rete di assistenza tessuta in mesi di frequentazioni e importanti momenti condivisi.
Oltre che con telefonate ed sms, venni coccolata anche con dolcetti e la nota zuccherosa bevanda americana, l'unica cosa che io riesca a bere quando gola e tonsille cercano di strozzarmi come una vecchia gallina.

Anche Elmar cercò di rendersi utile ma io lo tenni letteralmente dietro alla porta, a miagolare per telefono: "Io voglio venirti a trovare! Voglio farti le coccole!"
"Mio crucco tenerone, io invece preferirei di gran lunga che tu ti ricordassi di me così com'ero fino all'altra sera: un irresistibile bocconcino. Se sopravvivrò potremmo riprendere a limonare come una lavatrice in piena centrifuga, altrimenti conserverai la gnocchitudine della tua defunta fidanzatina italica tra i ricordi di gioventù più struggenti."
"Ma io..."
"Ti prego: lasciami abbrutire liberamente. Lascia che solo io assista a questa orgia tra germi tedeschi e anticorpi sabaudo-siciliani!"

Ma permettetemi di ricordare con particolare affetto soprattutto colei che ricoprì il ruolo più importante nel mio processo di guarigione: la nordica coinquilina Marije.
Ella, dopo avermi vista così malandata, prima mi preparò la minestrina più schifosa di tutti i tempi. E a preparare una minestrina schifosa, converrete con me, ci vuole proprio un certo talento ed un grandissimo impegno.
Poi, dopo avermi assicurato il suo sostegno devoto ed incondizionato, "Se hai bisogno, io sono nella stanza accanto, basta che chiami e corro!", uscì con il fidanzato per fare ritorno a casa 48 ore dopo.
Quarantotto ore dopo!

Marije, tesoro, sono passati dodici anni e sento ancora il bisogno di dirtelo: ma vaff...

Perdonate l'ineleganza ma quando ce vò ce vò.

Continua...

domenica 18 novembre 2012

53. Gelosia, passione e ricordi

Quella fu una serata davvero indimenticabile.
E non solo per l'appassionato bacio, scambiato alla ragguardevole altezza del metro e 94 centimetri sopra il livello del primo piano berlinese.

Quella fu la serata in cui Stefan, testimone involontario delle italiche-crucche effusioni, mi fece una scenata di gelosia in piena regola.
"Brava!", disse, "Brava! Vedo che ti sei trovata un nuovo fidanzato!"
Il tutto condito da vocetta isterica, che a sorpresa rendeva il suo eloquio più comprensibile, e plateale applauso rumoroso e solitario.
A poco valeva il fatto che tra me e lui non ci fosse stato mai niente. Né un vero appuntamento, né un bacio. Niente di niente. Evidentemente lui aveva deciso che stavamo assieme, contro ogni evidenza e contro la mia stessa volontà.
Stefan, a ventisei anni suonati, era come quei bambini dell'asilo che hanno la fidanzata ma "lei non lo sa".

Quella fu anche la serata in cui Eli e David si chiusero nella stanza dove si trovavano tutte le nostre giacche.
"Pancrazia", mi disse Sissi, "qua c'è gente che deve andare via e quei due deficienti non aprono e non rispondono. Vai a parlarci tu!"
"Io???"

Non so perché, ma io finivo sempre col trovarmi in situazioni di questo tipo.
La gente mi guardava in faccia e decideva che fossi sufficientemente affidabile, diplomatica o, semplicemente, paracula per essere piazzata in prima linea.
Alla gita delle superiori ci si trovava tutti in una stanza a fare casino? E secondo voi chi veniva mandata ad aprire la porta quando bussava un professore inferocito?
Un'amica giovane ed inesperta aveva bisogno di qualche acquisto particolare in farmacia? E secondo voi chi veniva spedito davanti al bancone a fare la disinvolta donna di mondo?
Due amici presi dalle fregole sessuali si chiudevano in una stanza nel bel mezzo di una festa? E secondo voi chi veniva scelto per richiamarli all'ordine e, soprattutto, per liberare giacconi e borse tenuti in ostaggio nella suddetta camera?
Io. Io. Io. Sempre io! Con la scusa che "I professori di te si fidano", oppure "In questo quartiere non ti conosce nessuno", o ancora "A te daranno retta!"
Ecco, fu proprio questo ciò che mi disse Sissi: "Vai tu, che a te daranno retta!"

E così io mi trovai dietro una porta a sussurrare: "Ragazzi, per piacere, aprite. Ci servono i giacconi"
Silenzio.
A dichiarare: "Ragazzi, io sono sinceramente contenta che voi siate una coppia appassionata, ma non potreste farlo a casa vostra?"
Silenzio.
A minacciare: "David, cazzo! Tirati su i pantaloni e vieni ad aprire questa porta. E se la mia giacca è anche solo stropicciata io vi corco di mazzate tutti e due!"

David aprì.
In fondo aveva avuto ragione Sissi: mi avevano dato retta.
Li avevo conquistati con la mia proverbiale dolcezza, abbinata al mio accento tedesco da gendarme.

Ma quella fu soprattutto la serata in cui, nel bel mezzo delle italiche-crucche effusioni, venni chiamata da cinque voci amiche: "Pancraziaaaaaaaa dove sei? Vieni a farti una foto con noi!"
Io, mollato Elmar in un secondo, corsi nell'altra stanza, e al grido di "L'ho baciato!" mi misi in posa con le ilari cinque Comari.
Ne nacque una foto che ancora adesso è un feticcio.
L'unica che ci ritrae tutte assieme.
Un'immagine di amicizia, giovinezza, felicità, sogni e speranze.
Il più dolce dei ricordi.
Il più severo dei moniti.

(Nel caso siate miei amici su facebook: sì, è proprio quella foto lì. E sì, io sono il bocconcino biondo sulla sinistra)

Continua...

mercoledì 14 novembre 2012

52. Der Kuss

Dopo la lunga e laboriosa preparazione, Sissi, Alan ed io fummo finalmente pronti per lasciare il mio appartamento ed affrontare il freddo berlinese.
Passeggiammo tutti e tre a braccetto per Prenzlauerberg fino a raggiungere l'appartamento de La Mari, dove si sarebbe svolto l'ennesimo party.

Del resto, a condividere la casa con tre ragazzi spagnoli, il minimo che ti possa capitare è di organizzare continuamente gran feste e far sfrenata bisboccia.
Che dire? Era un duro lavoro ma La Mari lo sapeva fare egregiamente: con classe, sobrietà e genuino divertimento. 

Al portone c'imbattemmo nel bell'Elmar (il destino mandava segnali inequivocabili!) e nel suo amico Jan. Quest'ultimo, non riuscirò mai a dimenticarlo, neanche dopo una doppia lobotomia carpiata ritornata, era impegnato ad annaffiare le peonie del custode con il proprio crucco augello (il destino aveva un pessimo tempismo ed un senso dell'umorismo ancora peggiore!).

Salimmo tutte e cinque assieme e ci mescolammo tra la folla che già riempiva il piccolo appartamento.

Quel mattino, quando ero uscita di casa, ero sicura di avere ancora 24 anni appena compiuti. Ma quella sera mi ritrovai ad averne circa tredici.

La mia amica Clena, che condivideva la casa con Elmar ma il passato allo Studentato con me, si dichiarò immediatamente mia complice ed alleata. Per ufficializzare questo suo ruolo non esitò a riferirmi, con dovizia di particolari, tutto ciò che il crucco inquilino le aveva già detto su di me ed il nostro interminabile primo appuntamento.
A quanto pare, il fisarmonicista lungagnone era rimasto molto impressionato dalla mia parlantina, il mio volitivo temperamento italico e...
Ed il mio culo.
Quest'ultimo, a dire il vero, l'aveva già colpito in precedenza ed era stato probabilmente l'artefice del nostro primo appuntamento. Quando si dice il romanticismo!

Il mio amico milanese Gabriele mi accusò di tradimento della patria.
"Fai comunella con lo Straniero? Vergognati!"
"Ma tu non esci con quella bella ragazza greca?"
"Sì, e che c'entra? Voi Donne non dovreste uscire con lo Straniero. Non si fa!"
Se non ricordo male, si batté anche il petto a mo' di gorilla della montagna.
Ed il giorno dopo mi chiese di uscire con lui. Quando si dicono le accuse disinteressate!

Le mie adorate comari presero a girare intorno a me ed Elmar con fare curioso e cospiratorio. Le battute ed i doppi sensi, in italiano ed in tedesco, si sprecarono.
Lo spilungone non li capiva, in qualunque lingua gli venissero proposti.
Io, invece, desideravo solo correre a nascondermi, non prima di avere corcato di mazzate le mie fedeli e "sciocchine" amiche. Quando si dice la forza dell'amicizia!

Insomma, era bastata una sola rampa di scale per essere magicamente proiettata nel bel mezzo di un intervallo di seconda media. Stessa maturità, stesso umorismo, stesso imbarazzo. Ci mancavano solo i ciuffi tenuti su con kg di lacca, e la focaccia del panettiere all'angolo.

Stressata da tanto adolescenziale delirio ma ringalluzzita dalle cospiratorie confidenze di Clena, decisi nell'ordine di: smetterla di menar il can per l'aia, andare a lardo fin quando non ci lasciavo lo zampino, essere la capra sopra la panca, disarcivescovizzare l'arcivescovo di Costantinopoli, e fare una palla di pelle di pollo.

Insomma, avete capito, no?
No?
Ma vi devo spiegare tutto nel dettaglio? Va bene.

Messo il povero Elmar letteralmente con le spalle al muro, ne scalai la possente fisicata e, esibendo tutto il mio italico temperamento, lo baciai come se non ci fosse un domani.

Le campane suonarono, il pubblico applaudì, le comari festeggiarono.
Eh sì, ovviamente, le lingue si unirono.

Continua...

venerdì 26 ottobre 2012

51. Quello che le ragazze dicono

Quando ebbe finito di suonare, Elmar mi raggiunse sul divano e cominciò a guardarmi con quello sguardo.
Sì, avete capito bene, quello sguardo lì.
Quello sguardo che va oltre le differenze culturali.
Quello sguardo uguale in tutto il mondo, dalle Alpi agli Appennini, dalle Ande ai Pirenei.
Quello sguardo che dice: “Aoh, mo’ me te magno!”
O, nel caso specifico, “Aoh, ich esse dich!”
Io, dopo una giornata passata a parlar tedesco e a cercare d’interpretare gli stranieri segnali di approccio, di fronte a quello sguardo tanto familiare feci l’unica cosa che mi parve sensata in quel momento. Alzai i tacchi e me ne andai.
“Ci vediamo stasera alla festa”, dissi ed uscii dall’appartamento, lasciando Elmar solo e confuso.

Immagino che vi stiate chiedendo perché lo feci. Ed onestamente non saprei darvi una risposta definitiva.
Forse lo feci perché, dopo una giornata cuore a cuore con un criptico tedesco, ero stanca morta e non in vena di una bella pomiciata sul divano.
Forse lo feci perché, dopo essermi chiesta per 10 ore se gli piacessi davvero o meno, di fronte a tanta chiarezza d’intenti invece di sentirmi alleggerita mi sentii infastidita. Della serie “Ma non potevi essere più spudorato fin dall’inizio senza mettermi tanto alla prova?”
Non che volessi una manata sul sedere al primo “ciao” o mezzo metro di lingua in bocca dopo 10 minuti. Ma non avrei disdegnato qualche sorriso complice o la timida ricerca della mia mano. Insomma, tutte quelle dolcissime banalità che usiamo noi, italiche genti, che avremo i nostri difetti ma almeno facciamo capire al volo dove vogliamo andare a parare.
O forse lo feci perché, come mi è capitato spesso, se qualcuno mi piace posso essere molto sfacciata ma anche molto timida. E in quell’occasione prese il sopravvento la timidezza.
Per la sfacciataggine, comunque, ci sarebbe stato tempo. Del resto quel sabato eravamo entrambi invitati alla stessa festa e quindi ci saremmo rivisti dopo solo due ore. Una piccola pausa, un breve intervallo, un momento per tirare un poco il fiato non ci avrebbe fatto che bene.

Quindi corsi a casa e divisi la mia cena con Sissi ed Alan. Entrambi non risparmiarono domande ed ironia circa il mio lunghissimo appuntamento. Poi ognuno di noi svolse un fondamentale compito: Alan lavò i piatti, io mi feci la doccia, e Sissi, al grido di “Non ti devi far trovare impreparata!”, si mise a rovistare nel mio cassetto della biancheria intima.
Ne nacque un epico scontro di volontà ed intenti:
“Elmar non vedrà le mie mutande stasera. Quindi non è proprio il caso che tu ti dia tanto da fare”, annunciai perentoria facendo capoccella da dietro la tenda della doccia.
“E chi l’ha detto?”, rispose Sissi portando in bagno le sue intime proposte per la mia serata.
“Lo dico io!”
“Va bene, ma metti che cambi idea, non vorrai mica farti trovare con qualcosa di semplice e banale?”
“Non cambierò idea!”
“Ma nel caso succedesse?”
“Non succederà! Non l’ho neanche ancora baciato”
“Lo sai che sei parecchio bacchettona per essere in Erasmus?”
“Che vuoi che ti dica? Mi piace essere originale, distinguermi dalla massa!”
“Ma a chi la vuoi dare a bere? Tu sei solo un raro caso di donna con l’ansia da prestazione”
“E anche se fosse? Comunque ho già scelto cosa mettermi!”
“Ho visto: slip bianchi di cotone. Scordatelo: dovrai passare sul mio cadavere!”
“E, sentiamo, tu che proporresti?”
“Che ne dici di questo?”
“Ma che sei matta?”
“Ehi, non farmi fare la parte della ninfomane! Guarda che l’ho trovato nel tuo cassetto, è tuo, Santa Maria Goretti dei miei stivali!”
“Sì, è mio e mi sta pure una meraviglia, ma è troppo da panterona per stasera!”
“E che t’importa? Tanto lui non lo vedrà, giusto?”, rispose la mia amica con un’espressione da gatto perfido che si è appena mangiato il più povero e tenero dei topolini.
“Uff! E va bene lo metto!”, squittii mi arresi.
“Perfetto!”, esultò Sissi avviandosi verso la porta.
Poi, un secondo prima di uscire dal bagno, “Ah, dimenticavo…”
“Che c’è ancora?”, sbuffai facendo nuovamente capoccella da dietro la tenda della doccia.
“Ti sei depilata?”
“Esci fuori dal mio bagno!”

Continua…

domenica 21 ottobre 2012

50. Valzer Musette

Fedele alla mia personalissima tecnica di autosabotaggio, quel sabato mattina mi abbigliai con un paio di jeans, una magliettina anonima e un piumino dall'erotico effetto "Omino Michelin".

All'uscita della metro, messo il piede destro sul primo scalino, un dubbio mi colse: e se Elmar non fosse stato così carino come lo ricordavo? In fondo l'avevo visto solo due volte: la prima in un locale buio e fumoso, la seconda durante una festa affollata tra un alcolico britannico approccio e l'altro.
E se il suo fascino fosse stato solo il risultato di un paio di lenti a contatto appannate?
E se, presa dall'entusiasmo, l'avessi sopravvalutato?
E se? E se? E se?

Ma ormai era troppo tardi per farsi inutili domande.
Inspirai. Espirai. E presi a salire con lentezza esasperante tutti gli scalini che mi portavano verso l'aria aperta. Fuori mi attendeva una fantastica giornata di sole. E, dall'altra parte della strada, Elmar.

Lui mi vide e mi sorrise.
Era ancora più bello di quanto lo ricordassi.
Ricambiai il sorriso.

Consumammo la nostra deliziosa colazione a base di bagel, salmone, burro e germogli di soia. Il tutto innaffiato da un perfetto cappuccino.

Mangiammo e parlammo. Anzi, no.
In realtà mangiammo e parlai.
Parlai.
Parlai.
Io lo rintronavo di chiacchiere. Lui annuiva, sorrideva e taceva.

Dopo quasi due ore di questo trattamento, mi convinsi che un tale protratto e cocciuto mutismo fosse l'evidente segnale di un pentimento. E che il perticone stesse solo cercando una scusa per liberarsi di me, il suo italico e ricciuto fardello.
Decisi, dunque, di salvare almeno l'orgoglio rendendogli il tutto più semplice.
Alzandomi, iniziai: "Ok, è stato divertente, ma si è fatta una certa..."
"Aspetta! Dove stai andando?", m'interruppe.
"A casa"
"Di già? Non ti va di andare ad una mostra?"
"Una mostra?"
"Sì. Ti va?"

Era alto più di un metro e novanta. Aveva occhi verdi, lineamenti perfetti e una dentatura da spot pubblicitario. E andava pure in giro per mostre? Bello e colto?

"Sì, mi va!", colsi euforica l'occasione, aspettandomi di vedere da un momento all'altro anche maiali volanti e muli parlanti.

Elmar ed io passammo l'intera giornata assieme.
Osservammo pazzesche installazioni di artisti provenienti da tutto l'oriente. Passeggiammo tra gli alberi svettanti di uno dei tanti parchi berlinesi. Dividemmo ipercalorici snack tedeschi.

Era ormai il tramonto quando lui mi chiese:
"Ti va di venire a casa mia?"
"A casa tua?"
"Sì, così ti suono qualcosa"
"Suoni? E cosa?"
"Indovina"
"Chitarra?"
"No"
"Basso?"
"No"
"Piano?"
"No. Ti arrendi?"
"Sì, ti prego, sono un disastro. Dimmelo tu"
"La fisarmonica"
"La fisarmonica?"
"Sì, perché?"
"No. Niente. Originale."
Mentre lo guardavo, tutta l'orchestra Casadei mi suonava Romagna Mia nella testa ed io cercavo disperatamente di non scoppiare a ridergli in faccia.
Ci riuscii. Ma non fu facile.

Arrivati all'appartamento che Elmar divideva con Clena, mia amica irlandese dei tempi dello studentato, mi misi comoda sul divano. A quel punto il mio teutonico perticone si esibì in una serie di valzer francesi che, più che balera romagnola, facevano molto vecchia Parigi.

Chi l'avrebbe mai detto che pure la fisarmonica avesse un suo fascino?
L'Erasmus continuava a stupirmi.

Continua...

giovedì 18 ottobre 2012

49. Fotoromanza

Ci sono alcune regole, antiche ed obsolete, che stanno alla base della vecchia scuola di corteggiamento. Un esempio?
Ci si conosce, ci si piace, ci si scambia il numero di telefono. Tutto in scioltezza.
Poi, però, non ci si chiama immediatamente. E neanche il giorno dopo. E, spesso, neanche il giorno dopo ancora.
E perché no? Perché non si vuole sembrare troppo disperati.

In realtà, dato che questa regola la conoscono tutti, non ha molto senso applicarla, anzi.
E, infatti, mi risulta che i saggi e disinvolti giovani di adesso la ignorino.
E fanno bene. Eccome, se fanno bene!

Personalmente, l'uomo che mi chiama il giorno dopo acquista mille punti. Perché penso che sia tanto genuino e sicuro di sé dal non farsi problemi.
Se, invece, mi chiama dopo i canonici 2 o 3 giorni, penso che segua le leggi universali del corteggiamento come un (vecchio) quindicenne qualunque. E, ovviamente, invece di acquistare punti, ne perde.

Naturalmente esiste anche l'opzione femminile: "non aspetto la telefonata e chiamo io". Opzione che, da donna di mondo, ho applicato ma solo in alcuni selezionati casi.
Ma non in quel "berlinese" caso. In quell'occasione decisi di mettermi in attesa.
E perché? E chi se lo ricorda! Sono passati 12 anni!

Io aspettai la telefonata di Elmar. Ed Elmar riuscì a stupirmi.
Non positivamente.

Ci eravamo scambiati il numero di telefono (fisso) il sabato sera.
L'apparecchio tacque, come prevedibile, domenica, lunedì, e martedì.
Ma anche mercoledì.
E persino giovedì.

Durante quelle interminabili giornate, pur di non passare le ore in contemplazione davanti al telefono, trovavo ogni scusa per stare fuori casa. Poi, a sera tarda, varcavo la soglia ed ascoltavo sconsolata la segreteria.
C'erano messaggi da parte di tutto il mondo.
Marije, in visita dalla nonna, che mi faceva un salutino.
Un ex fidanzato di Anke (la mia padrona di casa) che, non sapendo della di lei lunga permanenza in Brasile, cercava insistentemente improbabili e tardivi riappacificamenti.
Sissi ed Eli che mi chiamavano per chiedermi se Elmar avesse chiamato.
Insomma, c'erano tutti tranne lui: il teutonico perticone.

La settimana volò via triste e deludente fino al venerdì sera.
Stavo consumando una cena frugale quando il telefono squillò.
Mi precipitai.
Rallentai cercando di darmi un tono.
Mi riprecipitai con la paura di non fare in tempo.
Rallentai nuovamente.
Feci un bel respiro.
Risposi.

"Pronto?"
"Anke sei tu?"
"No, Anke non c'è"
"Dov'è? Le ho lasciato dieci messaggi, perché non mi richiama?"
"Perché sta in Brasile"
"E quando torna?"
"Probabilmente mai! Troverà un bel ragazzone e ci farà tanti pargoli crucchi-carioca. Smettila d’intasare la segreteria. Addio!"

Tornai a tavola con un vago senso di colpa. Ma solo vago.

Dopo un minuto il telefono squillò nuovamente.
Sospirai e risposi, pronta a subire i meritati insulti da parte di un poveraccio che si stava solo dedicando alla vecchia e cara pratica dell’archeologia sentimentale. Ossia il ripescaggio delle ex migliori nei periodi di magra.

"Pronto, mi dispiace, stavo scherz..."
"Ciao, sono Elmar"

Alleluia alleluia alle-e-luia!
Gli angeli cantarono, le trombe squillarono ed il tempo si fermò.
Allelulia alleluia alle-e-luia!

Vi è mai capitato di condurre una conversazione telefonica con una voce controllata, a tratti annoiata, mentre in realtà saltate sul divano e ballate la samba in giro per la casa? Sì che lo avete fatto. L'abbiamo fatto tutti. Lo facciamo tutti.
Lo feci anch'io.
Il lungagnone parlava ed io ancheggiavo per la cucina.
Il perticone parlava ed io esultavo in rigoroso silenzio e scomposta esaltazione.
Infine, concluse le quattro chiacchiere di rito, Elmar si decise a chiedermi di uscire. Nello specifico, m'invitò a far colazione assieme l'indomani.
Io, dopo aver consultato la mia agenda immaginaria ed eseguito una piroetta che neanche la Fracci alla Scala, accettai.

Magari qualcuno di voi si starà anche chiedendo: "Una colazione? Ma che razza d'invito è?"
Beh, per quanto mi riguarda, l'invito a colazione in Germania è il re degli inviti!
La colazione tedesca, la Frühstück , è una sublime tradizione teutonica. Una sorta di brunch light, con dolce e salato mirabilmente abbinati. Una specie di aperitivo antimeridiano innaffiato da spremuta, cappuccino, caffè o latte macchiato.

La Frühstück è la cosa che mi manca di più dei miei giorni teutonici.
La Frühstück è una peccaminosa abitudine del fine settimana.
La Frühstück è il tavolo intorno a cui si riuniscono amici e parenti.
La Frühstück è il godurioso inizio giornata delle coppie felici. E l’unica coccola del giorno di quelle infelici.

Elmar, fortunato ed inconsapevole, scelse per il nostro primo appuntamento la Frühstück ed io, per questo, già sentivo di amarlo. Almeno un po'.

Continua...

venerdì 5 ottobre 2012

48. Il triangolo no!

Mentre Sissi era relegata in bagno a reggere la fronte di Eli, la nostra festicciola divenne il Mio Party ed io mi ersi a meravigliosa ed insostituibile padrona di casa.
Dispensai sorrisi, mi feci foto con emeriti sconosciuti, riabbracciai vecchi compagni d'avventura. Insomma, me la godetti un bel po'.

Ma il vero evento indimenticabile di tutta la serata, la parte più ridicola e divertente della festa, fu il realizzarsi di un insolito e imprevedibile triangolo. Il triangolo italo-anglo-tedesco.
Il caro Ben, ubriaco come una cucuzza, appena entrato in casa aveva palesato il proprio pensiero:
"Pancrazia, tu presto tornerai in Italia, e io credo che la nostra amicizia sia pronta per fare un passo avanti", il tutto detto con voce strascicata e sguardo tra l'alcolico annebbiato ed il lascivo.
"Wow Ben, vuoi dire che stasera ho vinto una profferta sessuale?", gli sorrisi sorpresa e divertita.
"Sì, cara, sapevo che avresti capito al volo"
"Ecco, caro, cerca di capire anche tu. Non che io non apprezzi e non sia consapevole della grande opportunità offertami, ma io ti considero come un fratello"
"Un fratello? Facciamo un cugino. Mooolto alla lontana"
"Vabbè, mai abbastanza, però", gli risposi ficcandogli una taco chips (quelle da pucciare nel guacamole di Eli) in bocca, e cercando di allontanarmi il più rapidamente e disinvoltamente possibile.

Durante la serata Ben divenne la mia ombra, il mio compagno fedele, il mio alcolico stalker.
"Vieni, Pancrazia, balliamo!", diceva prima di trascinarmi al centro del soggiorno, e appoliparsi a me come neanche Fonzie in Happy Days.
"Ben, tesoruccio, lascia perdere", gli rispondevo divincolandomi e pregando che la birra successiva lo stroncasse definitivamente, lasciandolo privo di sensi ed inoffensivo in qualche angolo.

La cosa grottesca di questo teatrino era che avesse luogo proprio sotto gli occhi esterrefatti del perticone tedesco. Egli, come avrei saputo in seguito, era venuto alla festa con un unico obiettivo: Pancraziuccia vostra! E, di fronte al curioso spettacolo dato da me e Ben, cominciò inevitabilmente a pensare che "non ci fosse trippa per gatti" (che romantica poetessa sono, eh?).

Io, dal canto mio, ce la mettevo tutta per non perdermi la teutonica occasione. E, nei momenti in cui riuscivo a sfuggire all'accerchiamento britannico, mi fiondavo dal perticone.
Ma, tempo di fare due chiacchiere in santa pace, Ben tornava inesorabilmente all'attacco. Strisciando ormai sui gomiti, si trascinava fino a me per poi accoccolarmisi a fianco, con la capoccetta riccia sulla mia spalla e l'alito fetente che, se all'epoca non fossi stata già bionda, mi ci avrebbe comunque fatta diventare in un secondo.

"Scusa, ma è il tuo ragazzo?", mi chiese dubbioso il teutonico lungagnone.
"No"
"E che mi sembrate così intimi"
"No, è solo un amico. Inglese. Ubriaco"
"Ma sei sicura che non sia innamorato di te?"
"Ma quando mai! Vorrebbe solo fare sesso, ma non ti preoccupare fra poco s'addormenta"
"Ah. Quindi voi siete 'friends with benefits'?"
"Ma quali 'friends with benefits'?!?! Noi siamo 'friends without benefits'! Anzi, se continua così, presto non saremo neanche tanto friends!"
"Se lo dici tu"
"Certo che lo dico io!"

Per fortuna, come previsto, Ben si abbandonò presto su una cassapanca e là restò a dormire tutta la notte. Il perticone ed io parlammo a lungo e poi, finalmente, ci scambiammo i numeri di telefono.
"Mi dai il tuo numero?", mi chiese lui.
"Certo. Tu mi dai il tuo?"
"Certo, prendi nota"
"E..."
"E?"
"E..."
"E?"
"Senti, scusa, me lo scriveresti tu? Col tuo nome vicino accanto. Scritto grosso. In stampatello. Che io non l'ho mica ancora capito come ti chiami!", confessai candidamente.
"ELMAR"
"E come si pronuncia?"
"ELMAR"
"Così semplicemente?"
"Sì, ELMAR"
"Nessuna 'h' aspirata in mezzo?"
"No, nessuna 'h'."
"Neanche un umlaut?"
"Neanche un umlaut"
"E come ho fatto a non capirlo finora?"
"Me lo sto chiedendo anch'io"
"Ah, ecco."

Quella sera il lungagnone tornò a casa propria con la convinzione di aver appena conosciuto una sessualmente vivace rimbambita.

Ben, al risveglio, esibì una curiosa e selettiva amnesia.

Continua...

giovedì 27 settembre 2012

47. Il party del secolo

E finalmente fu sabato.
La preparazione pratica della festa toccò completamente a me.
Fui io a sistemare casa.
Fui io a fare la spesa.
Fui io a trascinarmi millemilioni di lattine e bottiglie di birra per tre piani di scale.
Non che voglia recriminare o lanciare sterili accuse adesso, a distanza di tanti anni, ma comunque fui io a farmi il mazzo. Ecco.

Col calar delle tenebre cominciarono ad arrivare i miei amici.
Prima fra tutti fu Elisa con cui condividevo amicizia e ottimismo:
"E se non dovesse venire nessuno?"
"Sarebbe una catastrofe!"
"Io non avrei più il coraggio di uscire di casa"
"Io tornerei di corsa in Italia a nascondermi"
"Io cambierei nome"
"Io entrerei nella legione straniera"

Poi, per fortuna, giunse anche Sissi.
"E se non dovesse venire nessuno?"
"Prendiamo le birre dal frigo e andiamo a divertirci in giro!"
Che sempre sia benedetta tanta inossidabile praticità!

Ben arrivò direttamente da un terzo tempo di rugby, quindi già mezzo ubriaco e con un'equivoca maglietta sponsorizzata dalla Durex.
Poi fu la volta di David, Alan, Stefan e Massimo.

Puntuali come sempre, bussarono alla porta anche La Mari ed il di lei fidanzato. Tedesco appassionato di balli latino americani e dotato di un nome assolutamente impronunciabile. Per mesi lo chiamammo Reykjavík, come la capitale dell'Islanda. E per mesi lui si limitò ad alzare gli occhi al cielo, rassegnato alla nostra italica inadeguatezza linguistica.

In puntuale ritardo giunsero anche Renée ed il Tandem-consorte, colpevoli di essersi affidati al senso d'orientamento di Gra'. Come se un cane si facesse guidare dal proprio padrone non vedente. Come se qualche fiducioso e sprovveduto automobilista chiedesse delle indicazioni stradali a me.
Con il suddetto trio, che fu recuperato da un gruppo di ricerca formato da uno speleologo, una guida alpina e due rabdomanti. Con il suddetto trio, dicevo, arrivò anche il mitologico Marco di Bolzano.
"Pancrazia!!!"
"Marco!!!"
"Ma quanto tempo!"
"Ti ricordi la nostra prima cena assieme a Schlachtensee?"
"Sì, come potrei dimenticarla?"
"Che hai fatto in questi mesi?"
"Le solite cose: ho frequentato l'università, bevuto birra, e cercato di salvare la pellaccia dalle assatanate donne tedesche che mi zompano addosso in ogni dove!"
"Vedo con piacere che finora ne sei uscito incolume"
"Sì, miracolosamente sì. Ma non sono ancora riuscito a spiegarmi tanto teutonico entusiasmo"
"Come no? Guardati un po' in giro: sei l'unico Erasmus italiano belloccio di questo semestre!" 

I minuti passarono ed il campanello continuò a suonare incessantemente. Nonostante il pessimismo ed il basso profilo degli inviti, la nostra festicciola casalinga si trasformò rapidamente nel party del secolo.

Furono ore di spensierato divertimento. 
Ore in cui io, Ben e chissà chi altro assistemmo dalla finestra alle funamboliche evoluzioni sessuali dei miei dirimpettai. 
Ore in cui Eli, ubriaca come una cucuzza, decise che fosse un'ottima idea affacciarsi dal balcone e sputacchiare sulla strada sottostante.  
Ore in cui m'impossessai e feci indebitamente sfoggio della sofisticata discografia dell'assente Marije.
"Wow, Pancrazia, che gusti meravigliosi!"
"Grazie"
"Che fantastica collezione di cd!"
"Ci sono voluti anni per metterla insieme"
"E i SGBFRTYB ce li hai?"
"Chi???"
"E FRGBNKK lo ascolti?"
"Ma che è? Si mangia?"
"Pancrazia, mi sorge un dubbio: i cd non sono tuoi, vero?"
"No"

Ore in cui si presentarono e vennero accolti decine di amici di amici di amici di amici di amici.
Ore in cui si strinsero nuovi legami, sbocciarono romantici amori, e si formarono diaboliche alleanze.
Ore in cui tutte le provviste furono prese d'assalto da uno stuolo di cavallette impazzite. 

Ore in cui un perticone teutonico decise di farmi dono di una bottiglia di spumante e di uno splendido sorriso. Sorriso tenuto fino a quel momento colpevolmente celato.

Continua...

mercoledì 26 settembre 2012

46. La prima impressione

Mosse dall'entusiasmo per la festa de La Mari, anche Eli, Sissi ed io decidemmo di organizzarne una.
Ma dove? La scelta ricadde immediatamente sul mio appartamento. L'unico abbastanza in centro da essere facilmente raggiungibile da tutti. L'unico abbastanza grande da poter contenere un numero adeguato di invitati. L'unico dove non fossero presenti coinquilini noiosi o psicotici, ma solo la mia simpatica, festaiola e mentalmente stabile Marije.

Non ne sono sicura, ma sospetto fortemente che l'idea della festa partì da Sissi, romagnola e PR nell'animo. Io, in realtà, all'inizio non fui particolarmente entusiasta. Certe attività non sono adatte a me ed al mio sistemo nervoso. L'ansia da prestazione mi divora, e la preoccupazione che tutti si divertano e stiano bene riduce notevolmente il mio diletto personale.
Ma Eli e Sissi sciolsero le mie riserve con un convincente: "Non sarà la tua festa. Sarà la nostra festa. Tu dovrai solo metterci la casa. Sta serena e goditela!"
"Va bene, ma se io ci metto l'appartamento, voi che ci mettete?"
"Entusiasmo e abilità organizzativa", rispose prontamente Sissi.
"Guacamole!", rilanciò Elisa.

Gli inviti, rigorosamente a voce, vennero distribuiti a pioggia mantenendo un basso profilo: "Noi sabato prossimo facciamo un party", dicevamo, "una roba tranquilla tra amici, una cosa piccola. Ti va di venire? Ma non ti aspettare niente di che. Al massimo beviamo qualcosa a casa e poi andiamo tutti assieme in giro per locali"
Evidentemente io non ero l'unica ad essere divorata dalla paura che il tutto si rivelasse un patetico fallimento. La mia ansia aveva contagiato anche le mie salde compagne d'avventura.

Quarantotto ore prima del party tricefalo andammo a rilassarci un poco al Quasimodo (leggasi  Kvasimodo). Un noto locale berlinese perfetto per una birretta ed un poco di musica jazz dal vivo.
Mentre sorseggiavo una rossa e, afflitta da un fastidioso mal di testa, meditavo di tornarmene a casa presto, Martino ci gettò addosso due ragazzi urlando "Tenete donne!".
Martino era un cupo filosofando veneto dai rari ed improvvisi sprazzi di vivacità. I due ragazzi erano: un rumeno bassetto che parlava perfettamente italiano, ed un perticone tedesco che guardava e taceva. Taceva e guardava. Guardava parecchio e taceva altrettanto.

Dopo cinque minuti anche loro, al motto di "più siamo meglio è", vennero invitati all'imminente festa.

All'uscita del locale, Elisa commentò: "Molto carino il tedesco"
Ed io risposi: "Sarà pure carino ma avrà detto due parole in tutto, a me sembra un tipo così strano"

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lunedì 17 settembre 2012

45. Feste, formaggio, autosabotaggio, Pacifico. Tanta roba.

Tra un'esperienza mistico-culturale e l'altra anch'io, ovviamente, mi dedicai ai banalissimi ma esaltanti Erasmus-party.
Con il passare dei mesi, ormai, quelli istituzionali organizzati dalla stessa Università non se li filava più nessuno, mentre presero sempre più piede quelli organizzati da chi, come me, aveva abbandonato lo studentato in favore di un appartamento condiviso, una Wohngemeinschaft (WG).

Una delle feste meglio riuscite fu la tardiva inaugurazione della casa de La Mari e dei suoi fratellini spagnoli. L'appartamento de La Frigerina ed i 3 hermanos.
Per una sera, i pochi metri quadrati a disposizione furono riempiti all'inverosimile da una variegata umanità formata da spagnoli, italiani, tedeschi, polacchi, francesi, e chi più ne ha più ne metta. Il tutto fu innaffiato da abbondante, ma mai sufficiente, birra. E nutrito con minuscole scaglie di formaggio Parmesan, rigorosamente tarocco e rigorosamente teutonico. Non chiedetemi il motivo di una tale scelta di rinfresco: non saprei rispondere. Ma sospetto che gli sprovveduti organizzatori non si fossero minimamente preoccupati di fornire qualcosa da sgranocchiare e che quindi, presi alla sprovvista dalle richieste degli ingordi ospiti, si siano infine limitati a ridurre in scaglie piccolissime l'ultimo fondo di formaggio nascosto nel loro triste e vuoto frigo.

Il mio ingresso trionfale al party mi vide faccia a faccia con il bel Felix.
"Ma che sorpresa Pancrazia, ci sei anche tu?"
(Sorpresona! In effetti, il fatto che ci fossero tutte le mie amiche, razza di rimbambito teutonico, non lasciava presagire minimamente il mio arrivo. Vero?)
"Ma che sorpresa Felix, ci sei anche tu?"
("Sorpresona! Del resto La Mari non mi aveva mica telefonato con largo anticipo per avvertirmi della presenza del belloccio del mio cuore e quindi di prepararmi psicologicamente oltre che fisicamente:
"Mi raccomando mettiti in tiro!"
"Oh cielo! Che mi metto? Che mi metto?? Che mi metto???")
Insomma con Felix, come sempre, me la cantavo e me la suonavo da sola. La sua presenza nel nostro immaginario rapporto aveva la stessa importanza di un cartonato. Un bel cartonato, però.

Riguardo al mettersi più o meno in tiro, devo confessarvi un mio problema, un mio limite, un mio comportamento ossessivo. Uno dei tanti.
Quando sto per incontrare un uomo di mio interesse faccio fatica ad acchittarmi.
Mentre sono là che guardo dentro l'armadio, una vocetta nella mia capoccia riccia inizia a darmi il tormento: "Non vorrai mica farti bella per quello? Gli devi piacere così come sei!", "Non vorrai mica perdere tempo a snaturarti per quello là? O gli va bene tutto il pacco, limiti e difetti compresi, o non vale neanche la pena di andare a prenderci un caffè assieme", "Non vorrai mica..."
E tale voce, acuta e fastidiosa come solo la mia stessa voce riesce ad essere, finisce molto spesso col convincermi.
Non che io esca in pigiama, con gli occhietti ancora cisposi e la fiatella mattutina. Non che rifiuti shampoo, doccia e deodorante per una settimana in modo da rendermi il più naturale e disgustosa possibile. Non che indossi per l'occasione solo vestiti con patacche di sugo ed un morbido tappetino di forfora.
Semplicemente scelgo volutamente e provocatoriamente di mantenere un basso profilo. Voglio lanciare un messaggio subliminale del tipo: "Abbbello, non t'aspettavi mica che perdevo tempo a preparamme pe' te? Ma figurati! C'ho altro da fare. C'ho."

Sì, insomma, diciamocela tutta, metto in atto un vero e proprio piano di autosabotaggio.
Ho dei problemi. Lo so.

Per la festa de La Mari, ad esempio, bandii il vestitino a fiori tanto femminile o il toppino sexy e mi rifugiai nei classici jeans con abbinata anonima maglietta.
"Felix è una battaglia persa", mi dicevo, "e la soddisfazione di darmi da fare per lui non gliela do. E che cavolo!"
Che vi avevo detto? Autosabotaggio.
E delirio.
Ma se fossi normale ed equilibrata non mi vorreste altrettanto bene, no?

Comunque, com'era ampiamente prevedibile, la conversazione tra me e Felix languì molto rapidamente. Dopo pochi minuti, lui tornò a rifugiarsi dai suoi amichetti piangendo la mancanza della Valchirica Ex, ed io invece cercai conforto tra birra e formaggio.
Un sorso di qua ed un morso di là, ben presto divenni l'oggetto delle moleste attenzioni di un australiano (un altro!) in viaggio per l'Europa.
Alla fine, per togliermelo di torno, fui costretta a buggerarlo, inventandomi di sana pianta un viaggio programmato nella terra dei canguri. Viaggio durante il quale sarei sicuramente passata a fargli un salutino.
"Ma sì, certo, dammi il numero di telefono" "L'indirizzo? Come no!" "Quanto ho intenzione di fermarmi? Almeno due mesi! Uno l'Australia o la visita per bene o non la visita proprio!" "Ci si vede presto, eh?"
 
Australiani e giapponesi. Che dire? Andavo fortissimo nel Pacifico.

O forse non solo?
Forse il grande incontro che avrebbe lasciato un segno indelebile nel mio Erasmus doveva ancora avvenire. E forse non avrebbe riguardato un rappresentante dell'emisfero australe.
Forse.

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giovedì 13 settembre 2012

44. Berlin ist arm, aber sexy

Tra un simulatore ginecologico e l'altro. Tra un primario poco simpatico e l'altro. Tra un esame insormontabile e l'altro. Tutto il mio erasmico cucuzzaro ed io riuscimmo comunque a ritagliarci dei momenti speciali, delle serate uniche, delle uscite memorabili.

Berlino era ed è una città che offre ogni tipo di divertimento e di stimolo culturale, il tutto ad un prezzo decisamente abbordabile. "Berlino è povera ma sexy", come ebbe felicemente a dire nel 2004 il sindaco Klaus Wowereit.
E di questa città, stropicciata, aperta e spudorata, consumai sfacciatamente ogni occasione, divorai ogni esperienza, bevvi fino all'essenza.

A Berlino conobbi l'Opera, il balletto sperimentale, il teatro d'avanguardia e persino il cabaret. Mi ritrovai più volte in un bugigattolo ad ascoltare promettenti comici tedeschi, a capire le loro battute, e a ridere euforizzata dalla birra e dal sopraggiunto superamento del gap linguistico.
Rimarrà indimenticabile quella volta che un tizio cominciò a raccontare in musica il dramma di una vacanza lungo le nostre italiche coste. Vacanza che, per l'uomo teutonico medio, è costellata da incomprensibili donne italiane (vedi: Homo germanicus) e da irraggiungibili donne tedesche completamente succubi del fascino mediterraneo:
"All together now!
Lo confesso: mi chiamo Karl Heinz, non sono Francesco.
Mi dispiace non sono di Torino, vengo solo da Berlino."
A sentire il nome della mia città natale quasi mi ribaltai dalla sedia, suscitando scalpore, curiosità ed eterna riconoscenza da parte dell'esordiente commediante.

A Berlino provai la cucina indiana, tailandese, giapponese, egiziana, ebraica, e chissà quante altre che non ricordo neanche più.
Seduta lungo infinite tavolate o accovacciata tra morbidi cuscini soddisfai curiosità e palato.

A Berlino vidi i film di Wim Wenders nella loro naturale cornice, partecipai ad una retrospettiva su Fellini, mi persi e ritrovai tra le mille occasioni offerte dal festival del cinema.

A Berlino sognai nelle sale del lussuoso caffè russo, calpestando marmi antichi e tappeti pregiati con le mie inseparabili scarpe da ginnastica, e porgendo al solerte cameriere il piumino da battaglia e l'inseparabile borsa tascapane.

A Berlino camminai per musei e mostre, con il naso rivolto all'insù ed il piacere di condividere scoperte e bellezze. Visitai mille volte gli atelier del Tacheles con gli equilibristi in ferro battuto, i corvi gracchianti al cielo e le mille testimonianze lasciate da mille mani in mille giorni.

A Berlino, nel caso non si fosse ancora capito, ho lasciato un pezzo di cuore.

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giovedì 6 settembre 2012

43. Augenheilkunde

Augenheilkunde.
Una parola che fa paura, eh?
E ancora non sapete quanto!
Letteralmente significa "medicina degli occhi". Oftalmologia.

Oftalmologia fu uno dei tre corsi che seguii durante il mio semestre berlinese e, in assoluto, fu quello che mi diede più problemi e mi tolse più ore di sonno.
Ciò non dipese affatto dalla difficoltà della materia, oggettivamente tra le meno ostiche in medicina, ma da un contrattempo che mi regalò un viaggio di sola andata nella "teutonica elasticità mentale". Un viaggio che ancora oggi mi fa rabbrividire al solo pensiero.

Tutto ebbe inizio una tranquilla mattina di gennaio quando, piena di buoni propositi, mi recai alla mia prima lezione pratica di oftalmologia. Mi sedetti su una seggiola e, dopo pochi minuti, scoprii con raccapriccio che quella non era la prima, ma bensì la quarta delle lezioni.
E le precedenti?
Le avevo perse e con esse anche la possibilità di raggiungere il monte minimo di ore richiesto. Questo era pari al 70%. Io raggiungevo il 66%. Quattro miseri punti di scarto diedero il via ad un incubo di rincorse, porte chiuse in faccia, suppliche e frustrazioni.

Come aveva potuto verificarsi una tale accademica catastrofe?
Per una volta posso dire, senza paura di essere smentita, che: non fu colpa mia! Affatto.
Io non c'entravo niente.
Ero vittima, non colpevole.
Gitte, la mia solerte coordinatrice Erasmus, aveva preso una cantonata pazzesca, un abbaglio monumentale, dandomi delle date di riferimento completamente sbagliate.
L'errore era di stampo germanico ma io, italica incolpevole, sembravo essere destinata a pagarne le conseguenze.

Col cavolo!

Vestendo i panni di una poco mistica Giovanna d'Arco mi ribellai al destino cinico e baro.
In qualità d'acrofobica alpinista sfidai una burocratica parete di roccia teutonica.
Sorda e cieca di fronte ad alzate di spalla, malcelato fastidio e spudorato pregiudizio, marciai con portamento fiero per la mia strada, pronta ad abbattere ogni ostacolo e rialzarmi ad ogni sgambetto.

La mia unica alleata fu Gitte.
Ella, mossa dal senso di colpa o dal desiderio di giustizia, mi offrì tutto il proprio sostegno anche se, comunque, quella che dovette fare le poste e dare il tormento al professore fui io.

Costui si oppose strenuamente a qualsiasi ricerca di compromesso o soluzione.
Come un disco rotto ripeté ad ogni mio casuale agguato in corsia:

"Non può dare l'esame non ha abbastanza ore"
"Non è colpa mia. È la coordinatrice ad avermi dato gli orari sbagliati."
"Non ha alcuna importanza. Non si può. Punto."

"Non può dare l'esame non ha abbastanza ore"
"Non è colpa mia. È la coordinatrice ad avermi dato gli orari sbagliati."
"Non ha alcuna importanza."
"Sono disposta a recuperare tutte le ore perdute"
"Non si può. Punto."

"Non può dare l'esame non ha abbastanza ore"
"Non è colpa mia. È la coordinatrice ad avermi dato gli orari sbagliati."
"Non ha alcuna importanza."
"Sono disposta a recuperare tutte le ore perdute"
"Non si può"
"Mi trasferisco in reparto a farmi schiavizzare per una settimana"
"Punto"

"Non può dare l'esame non ha abbastanza ore"
"Non è colpa mia. È la coordinatrice ad avermi dato gli orari sbagliati."
"Non ha alcuna importanza"
"Sono disposta a recuperare tutte le ore perdute"
"Non si può"
"Mi trasferisco in reparto a farmi schiavizzare per una settimana"
"No"
"Due settimane?"
"No"
"Tre settimane?"
"No"
"Pulisco i bagni di tutto l'ospedale con uno spazzolino da denti. Il mio."
"No"
"Mi prostituisco?"
"No"
"Le dono un rene?"
"Punto"

Fino a quando, esasperata, cambiai tattica:
"Perché dovrei pagare io per l'errore di qualcun altro?"
"E perché dovrei porre rimedio io agli errori di un'incapace coordinatrice italiana?"
"Italiana? Guardi che la coordinatrice incapace è tedesca"
"Non è possibile!"
"Oh sì, che lo è. Ecco il numero, la chiami"
Tutte le certezze del Professore crollarono in un secondo. Con le mani tremanti sollevò il telefono, compose il numero ed attese.
Dopo pochi squilli riconobbi chiaramente la voce di Gitte che si scusava, supplicava, e intercedeva.

Alla fine, stanco e sconfitto, il primario ebbe la forza di dirmi solo: "Domani venga in reparto."
Dal giorno seguente divenni una felice schiava, una soddisfatta galoppina, una solerte inserviente.
Al Professore non rimase altro che lanciarmi sguardi carichi d'odio ogni volta che m'incrociava lungo i corridoi.
E, probabilmente, nasconde tuttora nel proprio studio un bersaglio per freccette con il mio italico faccino ritratto sopra.

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venerdì 24 agosto 2012

42. Donne senza testa e uomini senza pantaloni

"Amici, amanti, passioni, simpatie. Ma all'università Pancrazia non ci andava mai?", si chiederanno i miei affezionati lettori.

Tranquilli, ci andavo. Eccome se ci andavo.
Una volta finiti i corsi super intensivi di tedesco mi dedicai soprattutto alle lezioni pratiche in ospedale. Lezioni pratiche da cui imparai molto e che lasciarono un segno indelebile nella mia mente.

Vi siete mai chiesti come si faccia ad insegnare ad uno studente di medicina a fare una visita ginecologica? No? I tedeschi se lo sono chiesto e si sono anche dati una risposta. E che risposta!
L'università Freie di Berlin è, o almeno era fino a dodici anni fa, l'orgogliosa proprietaria di una decina di simulatori.
Sì, avete letto bene.
Simulatori ginecologici. Manichini senza testa e senza gambe utilizzati per riprodurre una visita dell'apparato genitale femminile.
Anvedi quante cose interessanti, e di cui si farebbe volentieri a meno, s'imparano leggendo Pancraziuccia vostra, eh?

Abbiate pazienza. Ora vi spiego meglio. In realtà questi simulatori, per quanto inquietanti siano, possono avere una grande validità didattica, a patto però di utilizzarli con intelligenza e buon senso.
Ma il tutto, inevitabilmente, rischia di prendere una china comica e surreale, nel caso in cui il serissimo professore teutonico ritenga opportuno vestire i panni delle pazienti, parlando in falsetto e dando vita a folli conversazioni.

"Bonciornen dottoren", diceva il Professore, cioè la paziente, insomma il manichino acefalo, con la sua vocetta flautata da overdose di elio.
"Buongiorno!" (Oh signur ma questo fa davvero? Non ridere Pancrazia! Non ridere!)
"Io ho piccolo probleminen. Lei visitare me?"
"Sì, certo, sto qua apposta" (Oh signur ma come fanno gli altri a rimanere seri? Come fanno?)

E via così con 10 studenti, 10 simulatori ed un solo Prof rubato all'Actors Studio di New York, oppure al manicomio, dipende dai punti di vista.


Per le lezioni di ortopedia, invece, non avevamo a disposizione simulatori ma pazienti veri e propri. Ma nelle occasioni in cui questi, per qualche motivo, non erano disponibili ecco che il dottore responsabile dei Praktikum proponeva:
"Cof cof...ehm ehm...oggi non possiamo andare in reparto ma volevo comunque parlarvi dell'anatomia generale. Non è che...cof cof...ehm...ehm... qualcuno di voi sarebbe disposto a mettersi in mutande?"
I tedeschi hanno un rapporto molto libero con il proprio corpo ma, per altri versi, sono estremamente formali. Ed una situazione del genere manda in tilt i loro punti di riferimento.
In Italia nessun professore chiederebbe mai una cosa del genere. In Germania sì, ma non senza grande grandissimo imbarazzo.

Nelle due distinte occasioni in cui venne fatta la singolare richiesta noi donne, italiane e tedesche, utilizzammo tutte lo stesso vecchio trucco. Trucco tramandato di generazione in generazione, di latitudine in latitudine, di longitudine in longitudine. La tecnica di "non dico niente ma faccio credere tutto".
Tecnica che si realizza abbassando lo sguardo e accennando con voce flebile "No, io OGGI proprio non posso"
A quel punto all'uomo scatta l'atavico allarme "argomento femminile delicato!" e scappa a gambe levate.

In entrambe le occasioni finì con lo spogliarsi lo stesso studente. Un biondino affatto imbarazzato e parecchio esibizionista. Sono sicura che, se ci fosse stata una terza possibilità,  si sarebbe strappato via i pantaloni in stile Full Monty.


Ma le lezioni che riuscirono ad insegnarmi di più furono sicuramente quelle di oftalmologia, o meglio la mancanza di queste ed il kafkiano inghippo burocratico che ne derivò.

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venerdì 17 agosto 2012

41. Chi manca ancora all'appello?

Vi ho già parlato delle Comari, di Ben, di Alan ed anche di Stefan.
Ma l'elenco dei miei maggiori compagni di bisbocce serali non è finito qui. Mancano ancora all'appello: David e Massimo.
Vi consiglio di mettervi comodi, leggere con calma e, se necessario, prendere appunti.

David ci fu presentato da Alan, che a sua volta ci era stato presentato da Ben.
David ed Alan erano irlandesi.
Ben era inglese.
Ben era molto amico di Alan.
Alan era molto amico di David.
David e Ben non si piacevano. Si detestavano in quel modo tranquillo, diplomatico e privo di scenate tipico degli uomini. Uscivano assieme ed erano compagnoni di bevute ma si stavano reciprocamente sulle balle. E anche molto.

A me piaceva Alan. Ad Alan piaceva Elisa. Ad Elisa piaceva David. A David piaceva soprattutto la propria immagine allo specchio.
Dopo innumerevoli manovre diversive, pressioni psicologiche, sequestri di persona e atti di vera e propria coercizione fisica si compì almeno uno dei suddetti sogni romantici. Ed Eli riuscì ad ammaliare il di lei celtico amore.

David e la comare romana, dopo un inizio un poco difficoltoso, divennero dunque una coppia. E che coppia! Dolcemente appiccicosi come il burro con la marmellata. Teneramente indispensabili l'uno all'altra come federa e cuscino. Disgustosamente inseparabili come carta moschicida e mosca spiaccicata.
Insomma divennero insopportabili, asociali e pure un pochetto stronzi.(*)
David guadagnò una compagna devota ai limiti dell'idolatria. Noi perdemmo un'amica.
Ed io, com'è evidente, ancora ne soffro.


Massimo ci fu presentato in qualità di amico, di amici, di amici.
Era italiano, quindi capiva la nostra lingua, le nostre frustrazioni e le nostre difficoltà.
Era gentile e sempre disponibile. Ascoltava le nostre lamentele, asciugava le nostre lacrime e ci teneva la fronte se esageravamo con la birra.
Divideva con noi il letto e le sedute di gossip.

"Massimo, ma ce stai a provà?"
"Sì, perché?"
"Ma non puoi! Tu sei un amico e poi sei gay"
"Ma quando mai???"
"Ah no?"
"No!"

Massimo ora vive felicemente a Berlino con una ragazza italiana, amica di amiche di amiche, conosciuta anni fa lungo strani e misteriosi percorsi.
Com'è piccolo il mondo, com'è strano il destino, e quanto sono imbarazzanti certe cantonate.

(*): l'ho detto. Ci ho messo solo dodici anni ma finalmente sono riuscita a tirare fuori la rabbia repressa da amica abbandonata. La mia analista sarebbe molto orgogliosa di me.

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martedì 7 agosto 2012

40. Stefan, il ragazzo che sussurrava ai cavalli. E neanche questi lo capivano.

Una sera d'inizio gennaio mi trovai quasi per caso in discoteca. Non uno dei miei soliti, stropicciati e sudaticci locali con solo musica rock, ma una vera discoteca berlinese dove la techno la faceva da padrona e gli uomini indossavano camice altamente infiammabili.

Quella sera i tedeschi erano più strani del solito. Al posto dei loro tipici sguardi obliqui da conquistatore timido, esibivano sorrisoni aperti e disinvolti.  Invece di fare da alcolica tappezzeria dimostravano un sospetto entusiasmo ed una sorprendente smania comunicativa.

Io non riuscivo proprio a capire quale fosse la motivazione di un tale evidente e repentino cambiamento. Erano tutti fatti come cucuzze?
O ero io a sprizzare feromoni da ogni poro?
Allibita cercai di affrontare l'argomento con i miei amici, ma questi fecero spallucce ed affermarono di non sapere di cosa stessi parlando.
Mentitori!

Fu per caso e per merito della mia vescica che scoprii la causa di tale anomalia.
Nella spasmodica ricerca dei bagni m'imbattei in un cartello che non lasciava adito a dubbi: la scritta "Fisch sucht Fahradd"(*) incorniciava un ittico ciclista.

 Oh perdindirindina!
Ero nel bel mezzo di un single party. Una tradizione tipicamente berlinese che deve il suo nome al vecchio motto femminista: "Una donna ha bisogno di un uomo, come un pesce di una bicicletta".

Quegli infingardi dei miei amici mi avevano trascinato ad una serata di quel tipo senza aver l'accortezza di avvertirmi, anzi omettendo volutamente l'informazione.
Mi diressi verso di loro col dente avvelenato, lo sguardo assassino, ed il passo marziale quando fui intercettata da un ragazzo moro in t-shirt.

Sarà dipeso dal sorriso gentile o dai bicipiti scolpiti. Onestamente non ricordo quale fu il motivo principale. Fatto sta che, invece di fare una tipica Pancraziatica scenata ai miei compari, mi fermai a parlare con Stefan.

In realtà ciò non è completamente esatto. Non mi fermai a parlare con lui, ma solo ad ascoltarlo. Ascoltarlo, ascoltarlo, senza capire assolutamente nulla.

Stefan veniva da una zona remota della Germania, tra folletti e marziani, dove non si parlava tedesco ma una lingua sconosciuta. Sconosciuta ai più tranne che a lui e ai suoi amichetti verdi.

Stefan parlava parlava parlava e nessuno lo capiva. Figurarsi io!

In realtà, scoprii immediatamente che il problema di base non era la lingua ma la velocità con cui il mio nuovo amico articolava il linguaggio. Dopo 5 minuti di frustrazione, infatti, gli chiesi:
"Scusa, ti dispiace se parliamo in inglese? Faccio proprio fatica a capirti in tedesco"
"No problem...fghjkloiuytgf bnm hjkkkk uj fvbnjk"
"Ecco. Perfetto. Così va molto meglio."
Qualunque fosse l'idioma utilizzato da Stefan, il risultato era sempre il medesimo. Il ragazzo dai bicipiti di ferro e i pettorali di marmo apriva bocca e attorno regnavano immediatamente enormi punti interrogativi, sconcerto e confusione.

Ovviamente un individuo tale ebbe il destino segnato.
Uno così non poteva che entrare a far parte del nostro gruppo.
Ce li sceglievamo col lanternino noi! Modestamente.

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(*) Pesce cerca bicicletta

giovedì 26 luglio 2012

39. Waiting for the irish guy

Ben un giorno annunciò: "Presto si trasferirà a Berlino il mio carissimo amico irlandese: Alan. Vi piacerà!"
L'innocente dichiarazione dell'ignaro britannico fece scattare in tutto l'Erasmico Gineceo vivide e niente affatto innocenti immagini mentali.
La mia, dal basso verso l'alto, era la seguente: scarpe da ginnastica vissute, jeans stropicciati ad avvolgere un paio di celtiche gambe muscolose, maglione teso sopra ampio torace, irresistibile sorriso, barbetta incolta, occhi cerulei, capelli scompigliati e magari, giusto per non farsi mancare nulla, anche una chitarra in spalla.

Alan divenne rapidamente il più gettonato protagonista delle nostre fantasie ed il più abusato argomento delle nostre conversazioni. Ognuna si nutriva dei deliri delle altre, fino a produrre un mostro di perfezione: bello, sexy, simpatico, arguto e sessualmente instancabile. Del resto nel momento in cui si sogna è giusto non porsi alcun limite, anzi.
Quel poveraccio se ne stava in Irlanda a preparare i bagagli totalmente all'oscuro di essere già diventato una figura mitica a Berlino. Il tapino, probabilmente, se avesse saputo quanto fossero alte le aspettative su di lui, se ne sarebbe restato a casa sua con la porta chiusa a doppia mandata.

Una sera inaspettatamente accadde il miracolo: incontrammo per caso Ben ed Alan per strada.
Ci fermammo a chiacchierare e dopo 5 minuti i due giovani andarono per la loro strada e noi per la nostra.
Rimaste sole, eccitate come dei criceti, cominciammo a parlare tutte assieme: "Ma l'avete visto???" "Si!!!" "Ma quant'è gnocco???" "Tanto!" "Ed i capelli?" "Folti e meravigliosi" "Con i riflessi ramati." "Siii, che meravigliosi riflessi!" "E la voce?" "Stupenda. Certo non che abbia parlato molto, ma quel poco è bastato" "Si. Ho sentito un brivido lungo la schiena quando si è presentato e ha detto A..." "Ha detto Alan, vero?" "Certo, almeno credo." "Io ero tutta emozionata non è che lo stessi ascoltando molto" "Ma certo che ha detto Alan. Forse." "Qualcuna di voi l'ha sentito dire Alan????" "Io no" "Neanch'io" "E poi è strano che Ben non ci abbia avvertito del suo arrivo" "Già, sembrava così desideroso di farcelo conoscere" "E l'accento?" "Era irlandese?" "Io non ho sentito nessun accento." "Neanch'io" "Parlava così bene tedesco" "Proprio come un..." "...tedesco" "Oh cacchio!"
Eravamo state vittime di un increscioso episodio di Allucinazione Collettiva. Appena incontrato Ben con un ragazzo che non conoscevamo avevamo desunto che costui fosse Alan. Eravamo state cieche e sorde di fronte a tutti gli indizi che indicavano il contrario. Il canto ubriaco delle nostre ovaie aveva coperto il richiamo del buon senso. Avevamo fatto la figura di un gruppo di ninfomani cretine!

Pochi giorni dopo l'imbarazzante episodio, conoscemmo finalmente l'uomo che per tanto tempo avevamo atteso, l'irlandese che aveva mandato i nostri pochi neuroni in pappa, l'essere sulle cui spalle gravavano tutte le nostre aspettative.
I capelli non erano folti, le gambe non erano muscolose ed il torace non era ampio.
In effetti, più che un Dio del sesso, Alan sembrava un morbido orsacchiottone. Un ragazzo simpatico e gentile con (pochi) capelli rossi, profondi occhi azzurri e un'inclinazione particolare per le tragedie sentimentali.
Ogni volta che gli piaceva una ragazza questa, nel giro di 24 ore, finiva a letto con qualche amico di lui. Perché egli, oltre ad avere un pessimo gusto nello scegliere le donne, ne aveva uno anche peggiore nello scegliersi gli amici: tutti più belli, privi di sensibilità, estranei a qualsiasi forma di empatia e soprattutto bulimici sessuali.
Ed anche quando riusciva a sublimare l'innamoramento con una storia vera e propria, nel giro di poco veniva sistematicamente mollato o per un ragazzo migliore, eventualità a cui lui reagiva con una grande signorilità, o per un lavoro dall'altra parte del mondo, eventualità che lo trasformava in un cane abbandonato in autostrada, o per un'altra donna, eventualità che gli procurò un abbonamento decennale dallo psicanalista.

Alan era decisamente sfortunato in amore, ma la colpa a ben vedere non era solo della cattiva sorte. Se, invece di provarci sempre con le ragazze sbagliate, ogni tanto ci avesse provato con quelle giuste forse le cose sarebbero andate diversamente.

Caro Alan, 
a distanza di più di 10 anni è giunto il momento che te lo dica. 
Se, putacaso, invece di provarci con le altre, ci avessi provato con me: io ci sarei stata.
Pirla!!!

Con affetto,
la tua amica Pancrazia(quella a cui volevi bene come ad una sorella)


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martedì 24 luglio 2012

38. Un australiano (semi)nudo nella mia cucina

Il 3 gennaio del 2001 cominciò la mia nuova vita a Berlino.
Da quel momento avrei vissuto in uno splendido appartamento sito in Marienburger Strasse 47. La mia idea di paradiso.

Marije si rivelò ben presto essere la coinquilina perfetta: pulita, affabile e sempre disponibile.
In verità, a voler essere proprio pignoli, un difettuccio ce l'aveva: ospitava continuamente gente a casa.

La sua vita randagia, divisa tra Olanda, Svizzera, Australia e Germania, l'aveva portata ad avere amici sparsi per tutto il mondo. Amici che periodicamente la venivano a trovare.
Tutto questo via vai era molto pittoresco e divertente, ma ogni tanto un po' di tranquillità non mi sarebbe certo dispiaciuta. Fare colazione con emeriti sconosciuti o sorprendere coppie nordiche che copulano sotto la doccia può anche essere divertente, ma dopo un po' viene a noia.

Ad onor del vero, devo ammettere che tutto questo traffico aveva un suo lato positivo. Ogni volta che doveva arrivare qualcuno, Marije si metteva a pulire casa da cima a fondo e, data la frequenza con cui arrivavano ospiti, l'appartamento era sempre lindo e splendente senza bisogno che io alzassi un dito. Lei entrava in cucina con secchio e scopettone ed io capivo che di lì a poco avremmo avuto visite.

La prima sera nel nuovo appartamento la trascorsi a chiacchierare con un ragazzo olandese.
Preda della mia solita ansia da prestazione, desiderosa di risultare simpatica e smaniosa di fare "la donna di mondo", non trovai niente di meglio che raccontargli quella volta che, durante un viaggio in Belgio, mi ero spinta fino in Olanda. In quell'occasione avevo visitato la cittadina di Maastricht, che non mi aveva colpito particolarmente e che quella sera definii, senza mezzi termini, anonima ed insignificante.
"Io sono di Maastricht", disse lui asciutto. Per un attimo sperai che quello fosse un esempio di ironia olandese. Una battuta. Uno scherzo. Ed invece no. Lui non era un olandese ironico in vena di spiritosaggini, ma io ero decisamente un'italiana cretina in vena di figuredimerda.

Un giorno aiutai Marije a preparare una luculliana cenetta per due suoi amici: una ragazza svedese ed il di lei fidanzato. L'innamorato era nuovo di pacca, venuto fino a Berlino proprio per essere presentato alla mia coinquilina.
La fidanzata era il prototipo perfetto della bellezza nordica: capelli color oro, occhi azzurri, zigomi alti ed un corpo aggraziato. Lui, invece, aveva il fisico del Gobbo di Notre Dame, l'eleganza di Homer Simpson e la simpatia di Puffo Quattrocchi.
Marije, superato lo shock iniziale, esibì per tutta la sera un sorriso tirato, molto simile ad un ringhio, mentre io, zitella ma felice, capii finalmente il profondo significato del detto "meglio soli che male accompagnati".

La mia accondiscendenza nei confronti dei continui ospiti vacillò quando mi venne annunciato l'arrivo di alcune amiche.
Sette.
Sette amiche svizzere.
Nove donne ed un solo bagno.
Credo che siano scoppiate guerre sanguinose per molto meno!
Il folto gruppo si fermò per una lunga, lunghissima settimana, dormendo spalmato su letti, brandine e materassini. Un accampamento in piena regola.
Questa affollata visita cadde proprio nel bel mezzo della sessione dei miei esami e più di una volta, esasperata dalla confusione ed il chiacchiericcio, ebbi la tentazione di soffocare nel sonno tutte e sette le galline starnazzanti. Per fortuna non lo feci e la mattina di una prova scritta trovai, attaccato alla porta della mia camera, un post-it d'incoraggiamento firmato da tutto l'elvetico gruppo vacanze. Erano molto fastidiose, ma sapevano farsi voler bene.

Ma l'ospite numero uno, l'ospite di tutti gli ospiti, fu lui: l'Australiano.
Tornando a casa un pomeriggio, entrai in cucina e mi trovai di fronte ad un bellissimo ragazzo coperto solo da un asciugamano striminzito avvolto intorno ai fianchi.
"Ciao! Io sono Tom, e tu?"
"Io sono Pancrazia e vivo qua."
"Sei l'Italiana? Io sono stato in vacanza in Italia, mi hanno insegnato tantissime parole", e mi vomitò addosso una serie di colorite parolacce.
"Ma queste cose te le hanno insegnate o urlate dietro?"
"Come? No, no, eh eh, simpatica."
"Sai quello che hai detto?"
"Sì. Credo. Forse. Non lo so. Perché?"
Avevo trovato un australiano carino e mezzo nudo nella mia cucina, non potevo pretendere che fosse anche intelligente. Pure la fortuna sfacciata non può essere tanto sfacciata.

Allo studentato una cosa così non mi sarebbe mai successa.
Allo studentato di surfisti (semi)nudi neanche l'ombra.

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domenica 22 luglio 2012

37. Gru e streghe

La mattina seguente mi avviai per le scale. E fu lì che lo trovai.
Lì. Impalato. Alle 8 di mattina. Con il suo cappotto color cammello e un pacchetto stretto tra le dita.
"Che ci fai qua?"
"Sei tornata?"
"Hai assaggiato il Pandoro?"
"Ho un regalo per te"
"Sto traslocando"
"Lo so. Sono qua per aiutarti"

Chissà da quanto tempo era lì. Pazzo e presente. Gentile senza fronzoli. Unico.
Fumiki prese lo scatolone che tenevo in braccio.
"Attento, è pesante"
"Ho fatto il traslocatore. È tutta questione di metodo"

In quella scatola avevo riposto gran parte di ciò che avevo accumulato negli ultimi tre mesi. Sopra quell'eterogeneo insieme di oggetti faceva bella mostra di sé un festone di gru in cartoncino colorato. Un vecchio dono del mio nipponico amico.
"Ti porti anche queste?"
"Certo"
"Ma non sono un granché"
"Sono bellissime"
"Te ne avrei potute fare di più belle"
"Queste sono splendide"
"Il regalo non lo apri?"
"Io non ti ho fatto niente"
"Ho mangiato una fetta di Pandoro"
"Non è un gran regalo una fetta di Pandoro"
"Arriva dalla tua terra, certo che lo è"

Appoggiai il resto delle mie cose sul tavolo da pranzo e aprii il suo regalo natalizio: una streghetta.
"Ti porterà bene. Io non credo a queste cose. Ma ho pensato che magari tu sì. Se non ti piace non importa. Era solo un pensiero. La puoi anche buttare se vuoi"
"È bellissima, grazie. Nella mia nuova stanza ci sono due finestre: una sarà per le gru e l'altra per la strega. Sarò al sicuro."

Non sarei mai riuscita a far quel trasloco tutto da sola. Mi ci sarebbe voluta una giornata intera e, invece, con l'efficiente aiuto di Fumiki, portai tutto il mio mondo da una parte all'altra di Berlino in un'ora. Un'ora delle nostre solite chiacchiere.
"Parli come una buddista"
"Credi che dovrei diventare buddista?"
"Credo che ognuno dovrebbe rimanere della propria religione"

Un'ora da Schlachtensee a Prenzlauerberg.
"Eccoci qua"
"Non ci sono negozi. Dove farai la spesa?"
"C'è un supermercato all'angolo e un altro al fondo della strada"
"Saranno sicuramente più cari di quelli davanti allo Studentato"
"E perché mai?"
"E i servizi? Se ti serve qualcosa come fai?"
"Ho la Posta davanti casa e due Banche ad un isolato"
"La fermata della metro è lontana e non c'è l'autobus"
"La metro è molto più vicina di quanto sia a Schlachtensee. E qua c'è il tram. Ti piace il palazzo? Molto bohemienne, no?"
"Se per bohemienne intendi vecchio. Sì, molto bohemienne"
"L'appartamento è fantastico, non trovi?"
"L'arredamento è banale"
"Banale? Ho una scrivania ricavata da una vecchia macchina da cucire, una palla trasparente come sedia, un pazzesco letto a scomparsa, e un'amaca"
"Sì, appunto. Ora devo andare"
"Mi verrai a trovare?"
"Sarò molto impegnato con l'università"
"Io comunque sono qua, l'indirizzo lo sai"
"Certo, magari ci vediamo. Chissà. Ciao"
"Ciao"

Ci sono persone capaci di svegliarsi all'alba e di caricarsi uno scatolone sulle spalle per te. Persone che però non ti diranno mai che gli mancherai, preferendo di gran lunga tenerti il muso come il più capriccioso dei bambini.

Ci sono persone che non dimenticheranno mai le piccole lezioni di spigolosa saggezza ricevute. Persone che, nel fondo di un armadio, conservano ancora gelosamente festoni di gru colorate ed una streghetta porta fortuna.

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martedì 17 luglio 2012

36. L'ultima notte a Schlachtensee

Dopo essermi trascinata per il parco dello studentato, in mezzo a fango, cumuli di neve, sabbie mobili, alligatori e sanguisughe, entrai finalmente nella mia Haus, con lo zaino-slittino-dembulatore in spalla ed il freddo cronico nelle ossa.

In questo pessimo stato venni accolta dal riscaldamento teutonico che, in barba al buco dell'ozono, l'inquinamento ed il risparmio energetico, raggiungeva sempre livelli tropicali. Come un Mammut liberato dai ghiacci presi a zompettare leggiadra per le scale e, dopo essermi fermata in cucina a lasciare in dono un soffice Pandoro, rientrai finalmente nella mia stanzetta.
Questa era ancora linda come sempre, ma ormai spoglia.
Prima di partire, infatti, avevo inscatolato tutto in vista del trasloco imminente, ed il mio mondo ora giaceva accatastato in un angolo.

Infilatami sotto il piumone, trascorsi così la mia ultima notte a Schlachtensee. Una notte di ricordi e bilanci, progetti e paure.
Mi apprestavo a cominciare una nuova fase. Lasciavo il certo dello studentato per l'incerto dell'appartamento condiviso.
Lasciavo le cene con le Comari ed i tè con Fumiki per qualcos'altro, ma non sapevo ancora cosa.

Renée e Gra' avevano scelto di rimanere allo studentato.
La prima nella stanza dalle tende colorate e il profumo di buono. Stanza che aveva visto il lento, lentissimo, ma inesorabile avvicinamento tra lei ed il suo Tandem. No, non la bicicletta, ma Florian. Lo studente tedesco con cui Renée s'incontrava per chiacchierare e insegnarsi reciprocamente le proprie lingue madri. In pratica lei gli parlava in tedesco e lui le rispondeva in italiano.
Incontri e scambi di lingue. Se dovessi scrivere tutti i doppi sensi ed i giochi di parole di cui furono vittime i due innamorati ci potrei aprire un altro blog. Quasi quasi.
La seconda rimase nella sua superaccessoriata camera, dotata di televisore portatile e di un invidiabile guardaroba. Ma anche di un, molto meno invidiabile, vicino russo. Ragazzone spocchioso che si faceva chiamare il Padrino, vantava un intoccabile frigorifero di proprietà, e amava dare il bianco in mutande.

Sissi, La Mari ed Eli, invece, avevano fatto la mia stessa scelta ed avevano già traslocato tutte prima di Natale.
Sissi aveva trovato posto in una villetta stretta stretta e alta alta, con un giardino da curare, il vialetto da pulire, e due germanici coinquilini sulla cui simpatia vertevano e vertono tutt'oggi opinioni contrastanti. Se chiedete a Sissi ed Eli vi diranno che lui era strano e lei simpatica. Ma se chiedete a me, ed ovviamente la mia opinione è l'unica che conti, vi dirò che lui era gentile e lei una "faccia da patata" di rara antipatia.
La Mari aveva scelto di dividere un appartamento con tre ragazzi spagnoli, già suoi vicini di stanza allo studentato. Furono i 3 hermanos e la loro amata Frigerina. Perché quando cresci tra fratelli e studi ingegneria hai pelo sullo stomaco e spirito d'adattamento superiori alla media. Questo gli uomini lo sentono e ti adorano a prescindere.
Eli, esibendo di diritto lo scettro della sfiga, era finita in una casa di pazzi. Con un coinquilino dal passato infelice, il presente incerto, e l'equilibrio labile. Con un'acida massaggiatrice che l'accusava di tutto, dagli aloni sui vetri alla fame nel mondo. E, per non farsi mancare nulla, anche con un giovanissimo rockettaro dalle gambette secche e l'aria triste e confusa di chi è nato nel decennio sbagliato.

Chissà a me cosa sarebbe toccato.

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giovedì 12 luglio 2012

35. Pancrazia on ice

Tornai a Berlino la sera del 2 gennaio con uno zaino pieno di delizie nostrane, e l'animo colmo di voglia di ributtarmi nella mischia.

Atterrata a Tegel trovai una città coperta da metri di neve e da uno spesso strato di ghiaccio.
Su strade e marciapiedi si poteva assistere ad evoluzioni di pedoni ed automobili degne di una finale dei mondiali di pattinaggio.
Mantenere il controllo dell'andatura era fisicamente impossibile e così era tutto un fiorire d'involontari axel, tolup, trottole, tripli tolup, quadrupli axel. Tutto un volare di femori, tibie, paraurti e pneumatici che seguivano ardite parabole e spettacolari coreografie.

Noi italiani abbiamo la convinzione che il cattivo tempo faccia disastri solo dalle nostre parti, mentre dalla Svizzera in su l'organizzazione sia sempre ineccepibile, e la vita del tipico cittadino nordico non subisca mai ritardi o contrattempi.
Ebbene, vi devo svelare un segreto: le cose non stanno proprio così.

In effetti, vi sono degli eventi che si verificano solo da noi: tipo intere città bloccate da 20 cm di neve o mezza montagna che viene giù per due ore di pioggia. Queste purtroppo sono nostre peculiari caratteristiche, figlie di amministrazioni vergognose ma anche di cittadini incoscienti.

Ma due metri di neve venuti giù in poche ore possono mettere in difficoltà anche l'attrezzata Germania. Perché, per quanto si sia organizzati, la neve prima di toglierla bisogna comunque aspettare che si depositi, non si possono mica mandare i messi comunali a prenderla al volo fiocco per fiocco. Ed il ghiaccio, per quanto uno vada giù di sale, se c'è da formarsi si forma comunque. La differenza non sta dunque solo in istituzioni più organizzate, ma anche in cittadini mediamente più consapevoli e responsabili che si lamentano di meno e si attrezzano di più.

Quella sera il marciapiede brillava di una sinistra e ghiacciata luce, ed io avrei dovuto attraversarlo per salire sull'autobus. La superficie era talmente scivolosa che, con lo zaino in spalla, avrei immediatamente fatto la fine della tartaruga capottata sul guscio.
I minuti passavano, l'autista del bus mi guardava annoiato, ed io cercavo disperatamente di trovare una soluzione.
Alla fine mi ricordai di essere lontanissima dalla casa madre, principio base su cui si fonda il sempre valido concetto "Qua non mi conosce nessuno, che me frega!"
Quindi mi sfilai lo zaino dalle spalle, lo buttai a terra di fronte a me e, mettendomici cavalcioni, ne feci un uso a metà tra lo slittino di Heidi e il deambulatore di una vecchietta. Spinta dopo spinta, grugnito dopo grugnito, raggiunsi l'agognata meta e mi issai a bordo del mezzo con sfacciata disinvoltura.

L'autista, dopo aver raccolto la mascella che nel frattempo era caduta ad altezza ginocchia, cercò di dipingersi sul volto un'espressione di tipica indifferenza crucca. In realtà la cosa non gli riuscì molto bene, ed io da quella sera sono pienamente consapevole di appartenere all'aneddotica di una qualche sconosciuta famiglia berlinese.
"Andate a dormire pampini."
"No, papà, prima raccontaci storia d'italiana pazza ke cavalca zaino!"
"Ancora??? Ma avete cià sentito mille volte!"

Ero tornata a Berlino.
Finalmente.

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Pancrazia in Berlin - Il Ritorno

Poche righe per avvertire i lettori distratti e i passanti ignari che dall'altra parte, su Radio Cole , sto raccontando il mio ultimo vi...